TWR la (psico)analisi di Jessica Jones 2: sprofondo rosa

Dopo una prima stagione sorprendente che aveva dato luce ad uno dei più riusciti (anzi, forse proprio il più riuscito) villain Marvel su piccolo e grande schermo, il Kilgrave di David Tennant, ed affermato il talento della sua protagonista Krysten Ritter, Jessica Jones è tornata su Netflix per una seconda stagione nel giorno della festa della donna. E no, non è stato un bel modo di celebrare l’8 marzo. 

La seconda stagione di Jessica Jones, infatti, non si avvicina neanche un po’ all’ottimo livello qualitativo del suo esordio soprattutto perché soffre di un macroscopico problema: non ha una trama. Ok, dai, sto stressando un po’ troppo il concetto. Vi faccio un esempio: avete presente quel vostro amico un po’ logorroico e noiosetto che per raccontarvi un aneddoto riassumibile in tre parole ci mette 20 minuti? Ecco: la 2a stagione di Jessica Jones è così. Non ha un’ossatura narrativa solida, ma si regge su tre subplot (abbastanza slegati tra loro) stirati fino all’inverosimile. Da un lato c’è Trish Walker che un po’ fa la tossica recidiva e un po’ è impegnata a darla via come se non fosse sua, dando così vita ad una storiella fatta di paturnie trite ritrite sulle dipendenze e reiterati primi piani dei pettorali di Malcom, il vicino di Jessica, che vengono mostrati in un episodio sì e nell’altro pure. Poi c’è Hogarth, l’avvocatessa di grido interpretata da Carrie-Anne Moss, le cui vicissitudini sono legate alla filone narrativo principale con degli stuzzicadenti rotti. E, infine, c’è Jessica che si ritrova a fare i conti con il proprio passato e, nel mentre, si innamora del vicino, tale José Cliché, incarnazione televisiva di uno spaventoso quantitativo di stereotipi: ex-galeotto, ispanico, belloccio, ragazzo padre, ha una mamma cicciona che cucina le enchiladas e, siccome ha l’animo candido, ha una vena artistica e fa il pittore nel tempo libero (PS i quadri sono di David Mack, il copertinista di Alias, la serie a fumetti con protagonista Jessica). Mancava solo fosse un ex-marine con disturbo post-traumatico da stress.

Ma torniamo sulla questione backstory di Jessica. Non raccontare le origini dei poteri di Jessica nella prima stagione (se non con due-tre brevissimi cenni e relativi flashback) era stata una bella mossa. Una volta tanto ci eravamo risparmiati la solita solfa made in Marvel: sfiga incredibile (incidente, lutto o quant’altro), acquisizione di grandi poteri (con scienziati pazzi, mutazioni genetiche e affini) e, di conseguenza, grandi responsabilità. E INVECE NO, la showrunner Melissa Rosenberg ci è cascata, dedicando gran parte della seconda stagione all’origin story di Jessica e inserendo come main villain una ‘sciura’ coi capelli arruffati e grotteschi problemi di controllo della rabbia che la rendono credibile più o meno come John Turturro nei panni di Chuck, il collega di collera di Terapia d’Urto.

A salvare parzialmente la baracca e risollevare un tantinello le sorti della stagione sono le interpretazioni di Krysten Rytter e Carrie-Anne Moss, attrici straordinarie che donano grande credibilità e vita ai loro rispettivi personaggi. Se in una situazione del genere, al loro posto, ci fosse stato il Finn Jones di Iron Fist, qui sarebbe stata una caporetto televisiva.
Nel complesso, comunque, è stata una stagione decisamente poco ispirata, i cui contenuti avrebbero potuto tranquillamente rappresentare dei subplot secondari, in cui la componente investigativa della serie è stata annichilita ed il finale è stato tirato via e buttato lì senza un climax degno di tal nome. Un gran peccato ed un ulteriore elemento che abbassa l’asticella delle serie Marvel Netflix che, con la sola eccezione di The Punisher, ultimamente stanno avendo un trend inesorabilmente discendente.

Io vi saluto e vi aspetto su Facebook.

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