Succedeva un anno fa: il perennemente insoddisfatto fandom di Star Wars era incazzato come Greta Thunberg a un comizio di Trump. Per quella generazione a cui le musiche di John Williams fanno l’effetto trigger di Relax su Derek Zoolander c’era poco da stare allegri tra Palpatine risorto perché sì, Leia che svulazzava nello spazio come il mago di Segrate e John Boyega che inspiegabilmente frignava nel web di essere un grande attore senza apparenti meriti sul campo.
Il Mando ha mosso i suoi primi passi su Disney+ in queste condizioni ambientali e aveva già i blaster degli spettatori puntati addosso. Nonostante la fisiologica diffidenza, soprattutto nei confronti della Disney, l’uomo vestito di beskar ha fatto l’impresa: ha messo d’accordo tutti, belli e brutti, dimostrando che ci voleva poco per fare breccia nel cuore nostalgico di quel rompipalle del fan di Star Wars. Ci voleva una storia lineare del tipo “faccio cose (per avere in cambio altre cose), vedo gente (nella Galassia)”, episodi pressoché autoconclusivi con titoli semplicissimi (Il bambino, Il pistolero, La jedi, Il salvataggio) e le atmosfere del vero Star Wars, cioè quelle della trilogia classica.
Ma il principale ingrediente alla base del successo di The Mandalorian è uno: la furbizia. Ogni scelta è una strizzatona d’occhio ai fan grossa come un’eclissi solare. Jon Favreau, il creatore della serie, ha ambientato The Mandalorian nel periodo che ogni appassionato, nei suoi sogni bagnati, desiderava esplorare dal 1983, l’arco temporale post-Ritorno dello Jedi. Quindi fanculo al restyling Primo Ordine, si torna ai cari vecchi stormtrooper con qualche apprezzabile variante, come i death trooper (gli assaltatori neri già visti in Rogue One). Un setting che consente di pescare a piene mani non soltanto nell’universo creato da George Lucas ma anche nella mitologia parallela costruita dalle serie in CGI di Dave Filoni, The Clone Wars e Rebels, e nel ripescaggio del meglio che il primo universo espanso – poi derubricato a Legends – aveva partorito, come il grande ammiraglio Thrawn (già reinserito nel canone proprio da Filoni) o i dark trooper, i droidi da battaglia imperiali visti nei videogame.
Azione genuina, ambientazione familiare e una seconda stagione che è salita di tono amplificando le potenzialità narrative del protagonista e mettendo su un world-building sempre più interessante in cui persino la nave del Mandaloriano, la Razor Crest, è diventata un vero e proprio personaggio, come solo il Millennium Falcon aveva fatto finora nella saga.
É stata un’escalation che ha portato all’esordio in live-action di Ahsoka Tano, il personaggio di Star Wars più celebre tra quelli non creati da Lucas, in un episodio – Capitolo 13, La Jedi, diretto proprio da quel Dave Filoni che ha creato Ahsoka – che è un po’ un western e un po’ un film di samurai ambientato su un pianeta avvizzito in cui aleggia il rimpianto per lo Star Wars cinematografico che poteva essere e non è stato. Un Boba Fett cromato, un puccioso pupazzetto di Yoda che si muove male e Rosario Dawson che fa la cosplayer di Ahsoka hanno sostanzialmente ridicolizzato una trilogia sequel costata centinaia di milioni di dollari.
È solo l’inizio di potentissimi uppercut nostalgici: è tornato Boba Fett, quello vero, in un episodio spaccamascella diretto da Robert Rodriguez e poi è arrivato LUI – uno spoiler talmente grosso che sarebbe reato scriverlo anche dopo aver avvisato il lettore – che si esibisce in una “danza” che richiama smaccatamente l’epilogo di Rogue One. Una scelta che, al netto di una CGI tristemente posticcia nel finale, è pura gioia per chi ama Guerre Stellari e una dichiarazione d’intenti che è lo specchio delle ambizioni narrative di questa serie.
Episodi che hanno fatto schizzare l’entusiasmo del pubblico nell’iperspazio per la presenza di personaggi che, fino appena a un anno fa, era impensabile immaginare di vedere (o rivedere) in live-action. Ma ci sono state puntate, come il Capitolo 9 (Lo sceriffo), che, seppur godibili come avventure a se stanti, sono state ottime: il combattimento contro il drago Krayt è stato un momento memorabile in un episodio in cui Timothy Olyphant – uno che dopo Deadwood e Justified fatichi a non immaginarlo vestito da sceriffo – interpreta, guarda un po’, uno sceriffo. La furbizia, dicevo più su. Ma la furbizia sta anche nell’affidare il ruolo dell’antagonista della serie Moff Gideon a Giancarlo Esposito, che con Breaking Bad è diventato il volto del villan televisivo per eccellenza.
Nel cuore degli appassionati, The Mandalorian è il sequel de Il Ritorno dello Jedi che la nuova trilogia non è riuscita ad essere. È fanservice fatto bene, ha riportato equilibrio nella fanbase e, più in generale, è stato il miglior prodotto di Star Wars dai tempi della trilogia di Lucas, nonché il primo passo dell’evoluzione della saga verso l’inevitabile serializzazione televisiva. Oggi che gli show tv sono diventati il nord della bussola dell’intrattenimento, anche Guerre Stellari diventerà prevalentemente un’esperienza seriale. Non è un caso che pochi giorni fa, durante l’Investor Day, Disney abbia ufficializzato appena un film di Star Wars contro una decina di serie (tra live-action, animazione e CGI).
Serie a cui si aggiunge l’annuncio a sorpresa arrivato nella scena post-credit della seconda stagione di The Mandalorian che, a differenza di quello che molti credono, cioè che si tratterà di uno spin-off, potrebbe essere invece il titolo della stagione 3 che diventerebbe così un antologico.
Le avventure del Mando potrebbero essere arrivate a un primo capolinea, ma per lui si è aperto un nuovo capitolo legato alla darksaber ed è stato annunciato che sarà inserito in un evento crossover che coinvolgerà altre due serie ambientate nello stesso arco temporale, Ahsoka Tano e Rangers of the New Republic. Insomma, anche se non sappiamo quando li rivedremo, Din Djarin e la sua armatura di beskar hanno ancora dei conti in sospeso in quella galassia lontana lontana….