Prodotta dall’emittente spagnola Antenna 3, nel 2017 La casa di carta è stata distribuita a livello internazionale da Netflix secondo una logica che l’ammiraglia delle piattaforme di streaming segue ormai da tempo: rimpolpare il catalogo inserendo prodotti che facciano presa sul pubblico generalista nei vari Paesi. Il successo della serie suddivisa in due parti (la prima da 13 episodi e la seconda da 9) è andato rapidamente ben oltre le previsioni e così Netflix ne ha acquisito i diritti per continuare a produrre da sé delle nuove stagioni.
In realtà non c’è da stupirsi se la serie ha fatto il botto. È scorrevole, mentalmente poco impegnativa, si presta al binge-watching e, su un classico plot da heist movie (i film con le rapine), innesta tanti elementi furbetti: l’uomo che sembra uno sfigato e invece è pieno di risorse (il professore), il tribolato rapporto padre-figlio (Mosca-Denver), improbabili love-story con gente che si innamora in cinque minuti (con annessi strampalati casi di sindrome di Stoccolma), l’adorabile bastardo (Berlino) e la gnocca con le terga spesso in bella vista (Tokyo). Quelli tra parentesi sono – per chi di voi non lo sapesse – i nomi dei personaggi della serie che per proteggere le loro identità si chiamano come delle città a caso.
Insomma parliamo del classico prodotto spegni-cervello, un guilty pleasure da seguire con l’autoconsapevolezza con cui guardereste un film brutto con The Rock – tipo Rampage – per il solo piacere di annichilire le vostre facoltà cognitive mentre Dwayne prende a pugni persone, cose e città (disclaimer: The Rock ha fatto anche film d’azione con tutti i crismi, ma la maggior parte della sua filmografia, ecco, lascia parecchio a desiderare).
L’equivoco viene fuori nel momento in cui il pubblico dell’internet inizia ad osannare La casa di carta come fosse il miglior prodotto della storia delle serie tv, del cinema e della narrativa in genere, quando ti trovi a leggere in gruppi facebook tossici utenti che fanno paragoni tra La casa di carta e Breaking Bad, quando vai in palestra e uno tutto infervorato ti dice con lo sguardo entusiasta “l’hai visto La casa di carta?!?”, quando vedi che la serie è perennemente nella Top 3 nazionale dei prodotti più visti di Netflix.
Ecco, premettendo che il gradimento di una qualsiasi opera è squisitamente soggettivo, in questi casi il metro di giudizio di chi afferma certe cose è totalmente fuori taratura. La recitazione de La casa di carta è grossomodo paragonabile a quella dell’indimenticabile telenovela piemontese di Mai dire TV, i protagonisti sono in perenne overacting e gesticolano come delle sciure al mercato ortofrutticolo che contrattano sul prezzo dei broccoli. É facile immaginare che dietro la macchina da presa ci sia un René Ferretti che impreca contro i suoi Stannis e Corinna iberici. Ed è facilissimo immaginare tre sceneggiatori che, tra una paella e una sangria, vengano folgorati da un’idea: “facciamoli scopare, così, de botto, senza senso”.
L’idea di partenza è una roba già vista mille volte, per fare un solo esempio: Inside Man di Spike Lee. Le dinamiche narrative e le coincidenze sono talmente surreali che la sospensione dell’incredulità va a farsi strabenedire a tempo record. Una situazione che, se possibile, peggiora con gli episodi prodotti da Netflix, che alzano l’asticella dell’assurdo sconfinando nel puro nonsense. L’acquisizione della produzione da parte di Netflix, infatti, ha portato la serie a un punto di non ritorno e, tra guerriglie e messaggi a reti unificate, La casa di carta ha acquisito la dignità narrativa della saga di Sharknado.
Per carenze tecniche e recitative, per un uso randomico delle musiche ed un utilizzo parodistico e quasi autolesionistico dello slow-motion, La casa di carta è un prodotto di una mediocrità profondissima. Ok, soprattutto all’inizio è facilissima da guardare, come una fiction Mediaset di quindici-venti anni fa pompata di steroidi, ma poi l’imbarazzo prende il sopravvento. È un prodotto che va benissimo a patto che si abbia questa consapevolezza, è intrattenimento facile, una serie senza qualità se non quella di essere molto scorrevole. Ma cerchiamo di vedere le cose come stanno, viviamo la golden age della serializzazione televisiva, il periodo della fumosa eleganza di Mad Men, della sublimazione del crime con Breaking Bad, del poliedrico esistenzialismo di Bojack Horseman, un momento in cui Game of Thrones e Westworld sono i portabandiera del fantasy e della science-fiction, e oggi solo chi confonde il trash e l’intrattenimento becero con la televisione di qualità, uno spettatore assiduo di Barbara D’Urso, uno che guarda i post-partita sulla RAI, uno che applaude quando atterra l’aereo, può essere addirittura entusiasta de La casa di carta ed affermare che sia una bella serie tv.