TWR la (psico)analisi di Ready Player One: Willy Wonka e la fabbrica dei videogames

Negli ultimi mesi la curiosità per Ready Player One è cresciuta esponenzialmente, ancor di più dopo che le prime entusiastiche recensioni (soprattutto nell’internet italico) hanno iniziato a circolare. Tratto dal romanzo ultra-citazionista di Ernest Cline, che nel 2010 ha venduto i diritti alla Warner ancor prima dell’uscita del libro, Ready Player One è diretto da sua maestà Steven Spielberg, proprio uno tra i principali architetti di quegli anni ’80 che sono l’humus del best-seller di Cline.

Per vari motivi Ready Player One rappresenta una sorta di ritorno alle origini per Spielberg che ha tirato fuori un film furbo ed ingenuo al tempo stesso.
Furbo perché vi lancia in faccia secchiate di cultura pop per tutta la durata del film. Si passa da un videogame di corse d’auto a cui partecipano una Delorean, la moto di Kaneda e la Batmobile di Adam West impegnate a schivare un T-Rex e King Kong, per arrivare ad un royal rumble con un mecha-Godzilla, il Gigante di Ferro, Gundam e… Chucky la bambola assassina (?!?).


– cercare nel dizionario alla voce ‘orgia’ –

Senza dimenticare un oceano di easter egg che sono sia uno degli elementi narrativi alla base del film che bait per fissati della citazione, una sorta di ‘Dov’è Wally?’ lungo 2 ore (quanti personaggi di Street Fighter avete individuato? Dov’era il logo di Ralph Supermaxieroe? Ecc.). Questi continui schiaffoni d’infanzia anni ’80 sono però miscelati con la più moderna impostazione dei gamer di oggi. La scaltrezza del progetto, dunque, sta nell’acchiappare una forbice di pubblico ampia che va dal quarantenne nostalgico nato con l’Atari 2600 al videogiocatore quattordicenne con la PS4.
Ingenuo perché la trama è sostanzialmente quella di Willy Wonka e la Fabbrica del Cioccolato. Ci sono il ragazzino sognatore povero, il magnate idealista dal cuore grande, l’avido industriale senza scrupoli che, invece di comprare migliaia di tavolette di cioccolato per trovare il biglietto d’oro, assolda migliaia di videogiocatori. E tutto è raccontato con un tono sostanzialmente favolistico e sempliciotto. Qundi più che ingenuo, è più corretto dire che Ready Player One  è un film ingenuamente furbetto.

In termini di godibilità complessiva, il film di Spielberg scorre via bene, senza essere schiacciato dal peso delle citazioni e, anzi, amalgamandole spesso nel migliore dei modi riesce a dar vita ad un mash-up di cultura pop con alcuni momenti spaccamascella, come nel caso della sopracitata corsa automobilistica. L’estetica di Oasis, il videogioco all’interno del quale si svolgono 3/4 del film è impeccabile, ma ci sarebbe parecchio da ridire sul look dei due protagonisti, Parzival e Art3mis, che sembrano quei personaggi un po’ emo degli ultimi Final Fantasy ma che potrebbero essere usciti anche da un cartone delle Winx.


– bel ciuffo, zio. Stai sciallo. Yo! –

Il fatto, però, che la stragrande maggioranza di Ready Player One si svolga all’interno di Oasis, e sia dunque realizzata in CGI, toglie un po’ di cuore al film che avrebbe tratto giovamento da un miglior bilanciamento tra sequenze live action e computer grafica. Cosa che, magari, avrebbe dato un po’ di spessore al bidimensionale protagonista interpretato da Tye Sheridan. Anche perché è più facile sviluppare empatia con un personaggio in carne e ossa che con un avatar innamorato del suo ciuffo che, per di più, nel momento cruciale della storia tira fuori un discorso motivazionale da manuale dell’anticlimax che si conclude – parafrasandolo leggermente – con un sontuoso “nel multiplayer online ho trovato l’aMMore!”.
A bilanciare la sua prova opaca, per fortuna, c’è il duo composto da Mark Rylance, consacrato proprio da Spielberg con Il Ponte delle spie, e Simon Pegg, una vera e propria icona pop ambulante.


– …e così ho chiamato voi due perché quello è scarso –

Quindi ok, Ready Player One è un buon pop-corn movie, è divertente, visivamente ineccepibile e, nonostante un DNA 100% citazionista, ha tirato fuori alcune soluzioni narrative davvero interessanti (vedi le sequenze ambientate dentro lo Shining di Kubrik). Tuttavia la bulimia con cui i protagonisti divorano icone pop come noccioline risulta spesso e volentieri artefatta e non è contestualizzata nel migliore dei modi nel background dei personaggi: un conto è vedere i ragazzini di Stranger Things nel 1985 fissati con Dungeons & Drangons, i Ghostbusters e Dragon’s Lair, altra cosa è immaginare che legame possa avere un ragazzino del 2045 con una Delorean, il Gigante di Ferro o il Galactica. Questo è uno dei motivi per cui  non riesco a condividere lo smodato entusiasmo di critica e pubblico per quello che è sicuramente un film validissimo, ma non una pellicola generazionale. Al film di Spielberg mancano un pizzico di personalità e, soprattutto, un’epica più genuina.

Io vi saluto e vi aspetto su Facebook per fare 4 chiacchiere su Ready Player One.

PS dimenticavo: quindi la morale del film è ‘martedì e giovedì ciulatina sindacale, gli altri cinque giorni della settimana tutti a spaccarsi di realtà virtuale’?

PPS nel 2045 lo slang dei ‘ggiovani prevederà ancora il “bella zio!”?

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