La morte solitaria di Jack Monroe (Ed Brubaker & John Paul Leon)

Ed eccomi tornato a tre o quattro anni fa, con questo volume spillato tra le mani e gli occhi che mi supplicano di non lasciarmi andare alla cruda emozione. Riflettevo su questa storia letta anni or sono, la prima tra le vicende Marvel che mi abbia colpito davvero, e mi chiedevo se non fosse solo la scoperta di tale novità agli occhi di un neofita a farla sembrare una storia, se pur non così importante, di una certa elevatura narrativa, d’un certo potenziale, nonostante la sua utilità nel progetto più ampio che è l’Universo della Marvel – un’utilità davvero povera.
Mi sono risposto: no, non era semplicemente la novità. Questa storia ‘invecchia bene’ col lettore, neofita o meno.
Edita in Captain America n. 7 del luglio 2005 come Interlude, mentre qui nel Bel Paese in Thor & I Nuovi Vendicatori 84 di marzo 2006, questa piccola perla di Ed Brubaker – illustrata da John Paul Leon – racconta, come dal titolo s’evince, della drammatica morte di colui che ha vestito i panni di Bucky, Nomad e Flagello, mai assumendo quindi un’identità che fosse propria, sempre copiando quelle d’altri eroi. Una nullità, s’autodefinisce il nostro protagonista, che ritrovandosi in una situazione pirandelliana non ne esce né con un’accettazione del suo destino né regalandoci una qualsivoglia legge morale: è puro e crudo realismo, filtrato attraverso le elucubrazioni tipiche d’un romanzo psicologico.
È evidente che non fosse nelle intenzioni dell’autore – o, meglio, della Marvel – rendere memorabile l’intero prodotto, che prodotto, e non opera puramente artistica, rimane – ma con qualche giusto accenno alla lezione dataci da Uno, nessuno e centomila e le varie opere letterarie – e non – simili, riesce a calare il lettore nella turpe mente di Monroe, e per poco non sfugge pure il fatto che questo di cui ci accingiamo a conoscere vita e morte non è altri che un pazzo.
E sta qui la particolarità della narrazione: siamo sì calati nel crudo realismo che ci inorridisce della situazione di questo pover uomo, di questo inetto, ma al contempo è tutto raccontato, filtrato, dal punto di vista dell’inetto stesso, e l’inganno ci fa un attimo sperare, ci fa stare lì accanto a lui ad incitarlo; dall’altro invece ve ne dissociamo un attimo usando ragione e ci rendiamo conto d’ogni squilibrio del protagonista.
Nulla v’è di particolare in questo interludio alle storie del Soldato d’Inverno se non questo dualismo narrativo, ma è ciò che la rende, a mio modestissimo parere, degna di nota: l’inganno della follia.

E così abbiamo un Jack Monroe in preda al panico che ritrova il volto di Bucky, la persona – e l’eroe – dalla quale è ossessionato e che ha finto di essere per la maggior parte della propria vita, dappertutto.
Perso nei viaggi contorti della sua psiche che sempre più si deteriora, si dice:

Bucky mi deride dalla finestra, per aver sognato i suoi amici, gli Invasori.
Per aver sognato la sua vita anziché la mia.

Anche sullo specchio infranto, il suo volto continua a deridermi…

Jack si sente schiacciato, insultato, deriso. Si sente, ed è, un inetto.
Ma questo non gli impedisce di regalarci un corretto ed interessante riflesso della lezione pirandelliana di cui sopra, prodotta dal tetro e lento dialogo con le sue visioni:

Forse siamo tutti più persone allo stesso tempo… forse le nostre identità sono solo frammenti di memorie e di tempo… Forse ogni volta che cambiamo vita, direzione, acconciatura e abbigliamento, un altro di noi prende il nostro posto.
Si disfa di noi come se fossimo pelle di serpente.
E’ questa la parte più spaventosa dell’incedere della pazzia… Dopo un po’, inizia ad avere un senso.

Parlando della parte prettamente più tecnica, non abbiamo un disegno che ci possa esaltare – seppur sia perfettamente funzionale agli intenti del racconto e del progetto narrativo – non troppi momenti salienti e nessun climax, ma l’inganno della follia, insieme alla triste conclusione della controversa vita del “falso” eroe, può sempre farci spuntare qualche lucente commento acquoso dalle palpebre, e poterci fare sentenziare che non si tratta della solita storia d’intermezzo.
Brubaker va oltre il suo compito di portare avanti una trama, la sua trama, e ci regala un rispettoso ma non, giustamente, epico o esplosivo, omaggio ad un personaggio che ben poco è noto se non a chi alla Marvel s’è accostato ormai da molto tempo ed ha letto di tutto.

Consigliato anche semplicemente come lettura singola – e, diciamocelo, è proprio per questo motivo se ho voluto scriverne.
 Andando oltre il suo compito ma non rendendosi una lettura indimenticabile, lo giudicherei da 7 + e vi inviterei a riprendere in mano questa storia, o cercarla tra le colonne pericolanti d’una edicola, e a smentirmi felicemente.

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