Il sempre più frequente tentativo di attualizzare, o meglio riciclare, icone degli anni Ottanta porta risultati nella maggior parte dei casi decisamente insoddisfacenti, tanto al cinema quanto in televisione. Di esempi, più o meno recenti, ce ne sono dozzine: i prescindibili reboot di Robocop e Atto di Forza, il disastroso Ghostbusters del 2016, gli imbarazzanti tentativi di riportare in vita Terminator, passando per i remake televisivi di Supercar, Magnum P.I. e MacGyver. Inevitabile, dunque, approcciarsi con diffidenza ad una serie tv che si ponesse come ambizioso obiettivo quello di diventare un sequel di Watchmen, iconico fumetto del 1986 di Alan Moore e Dave Gibbons considerato una pietra miliare del decostruzionismo supereroistico al punto da diventare l’unico fumetto inserito da Time Magazine nella lista dei 100 migliori romanzi in lingua inglese del Novecento. Watchmen è ambientato in un 1985 distopico in cui Moore immagina che impatto avrebbero dei vigilanti mascherati ed un superessere sostanzialmente onnipotente, il Dottor Manhattan, in un modello di società realistica. Nello specifico Doc Manhattan avrebbe portato gli Stati Uniti a vincere la guerra del Vietnam allungando la vita politica di Nixon rimasto Presidente in carica per ben cinque mandati (con buona pace dell’emendamento della Costituzione che non consente di restare alla Casa Bianca più di otto anni). Nel 2009 il fumetto è diventato un film diretto da Zack Snyder che ha generato un discreto codazzo di scontenti per via di una macroscopica modifica al finale dell’opera.
Il progetto di una serie tv, ufficializzato da HBO nel 2017, si portava inevitabilmente dietro fisiologici timori corroborati dal nome dietro a questa inedita operazione: quel Damon Lindelof le cui serie fanno ancora discutere adoratori e odiatori. Per chi non lo sapesse Lindelof, autore tv divisivo come pochi, è il co-creatore di Lost eThe Leftovers e, proprio per il malcontento generato nel fandom dal finale di Lost, alcuni anni fa decise di cancellare i suoi account dai social media.
Non avendo la minima idea di cosa aspettarsi da questo show, e con tutte le perplessità di cui sopra, il ventaglio di possibilità sul risultato finale era molto ampio. Per restare nell’ambito degli adattamenti a fumetti, possiamo dire che andava dalla rivedibile idea di Joel Schumacher di dare a George Clooney una tuta di Batman coi capezzoli, alla felice intuizione di di Todd Phillips di mettere Joaquin Phoenix dietro il cerone di Joker. Fortunatamente la serie tv di Watchmen si è avvicinata molto più alla seconda eventualità.
Nei primi episodi della stagione Lindelof getta un bel po’ di fumo negli occhi degli spettatori preferendo scoprire le sue carte poco alla volta e dando l’(errata) percezione che la serie tv non sia un vero e proprio sequel dell’opera di Moore ma una storia a sé stante, una sorta di spin-off del fumetto con cui condivide soltanto delle affinità tematiche. Come se Lindelof avesse rimasticato l’idea di Alan Moore di usare una distopia con uomini mascherati come mezzo per muovere una feroce critica sociale. È quello che ha fatto, ma dietro c’è molto altro. Il Watchmen della HBO è ambientato a Tulsa e prende il via da una vicenda di odio razziale che affonda le sue radici nel 1921, nei disordini realmente avvenuti nella cittadina dell’Oklahoma; poi, pian piano, alcuni i protagonisti del fumetto si palesano anche in tv e con il passare degli episodi la mitologia creata da Moore e Gibbons inizia a rivestire un’importanza sempre maggiore ed il concetto di retaggio diventa una delle tematiche portanti dello show.
La scintilla da cui origina il plot della serie è l’omicidio di un poliziotto per mano di un membro del Settimo Cavalleria, un gruppo di suprematisti bianchi che indossano delle maschere di Rorschach, uno dei più iconici personaggi dell’opera originale. Dal canto loro i poliziotti sono anch’essi obbligati a indossare maschere per proteggere le loro identità, mentre quelli di più alto grado ricorrono a una doppia identità come nel caso di Angela Abar – ottima protagonista della serie interpretata dal premio Oscar Regina King – che assume i panni della misteriosa Sister Night.
L’ucronia televisiva è naturalmente figlia degli eventi verificatisi nel cupo 1985 del fumetto: il Vietnam è diventato uno degli Stati Uniti, ogni tanto piovono dal cielo calamari (?) e il Presidente in carica è Robert Redford.
Lindelof ha avuto un approccio intelligente e rispettoso del materiale sorgente riuscendo ad essere brillante e originale. In questo show ci sono tantissime idee folli, una su tutte è la storyline dell’istrionico Adrian Veidt interpretato da Jeremy Irons (un altro premio Oscar) coinvolto in delle bizzarre avventure in una lussuosa tenuta di campagna popolata di cloni che non è affatto ciò che sembra. Poi ci sarebbe parecchio da dire sulle uova (eh già), ma di questo è meglio non parlare per evitare spoiler.
A proposito di Veidt, che è uno dei protagonisti del fumetto, occorre fare un altro plauso alla serie tv: poteva essere spiacevole rivedere beniamini cartacei trasfigurati e reinventati per il piccolo schermo, invece il risultato è stato decisamente interessante. Accanto a tre big player provenienti direttamente dalle pagine del fumetto, Lindelof ha inserito nella sua storia tante pedine inedite, oltre a Sister Night ci sono Specchio, il misantropo paranoico interpretato da Tim Blake Nelson, la machiavellica miliardaria Lady Trieu ed il commissario di polizia Judd Crawford che ha il volto di Don Johnson, indimenticabile volto di Sonny Crockett in Miami Vice.
Per dirla alla Amici Miei, Lindelof ha usato fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione inanellando una serie di plot device decisamente stravaganti ma perfettamente contestualizzati nell’opera originale di mastro Moore. Il più delle volte nel tentativo di citare un’opera si finisce per scimmiottarla goffamente, Lindelof non è caduto nella trappola ed ha usato intelligenti rimandi e furbi easter egg come avviene, ad esempio, nel terzo episodio interamente scandito attraverso una barzelletta che Laurie Blake racconta ad una segreteria telefonica, un evidente omaggio alla barzelletta del grande clown Pagliacci raccontata da Rorschach nel fumetto di Moore (e nel film di Snyder).
Dal terzo episodio in avanti l’asticella della qualità della serie aumenta in maniera esponenziale regalandoci due tra le migliori ore di televisione del 2019 con l’episodio 6 “This Extraordinary Being”, un lungo flashback in bianco e nero ambientato a New York negli anni Trenta impreziosito da un paio di scazzottate in piano sequenza coreografate da dio, e l’episodio 8 “A God Walks Into Abar”, una puntata a orologeria in cui diversi piani temporali si incastrano come piccoli ingranaggi che rappresenta la sublimazione di quello che Lindelof aveva fatto in uno dei momenti più belli di Lost e cioè “La costante” (ep. 4×05), quando aveva spedito la coscienza di Desmond a fluttuare negli anni.
Dopo otto episodi di grande televisione la serie chiude con buon finale, non memorabile d’accordo, ma la storia della tv insegna quanto un epilogo sbagliato possa condizionare il giudizio su un’intero show (vedi alla voce Game of Thrones). Meglio giocare sul sicuro, d’altronde il Watchmen HBO di rischi ne ha presi tantissimi, ha azzeccato quasi tutto ed ha sostanzialmente superato anche il difficile esame del fandom integralista giocando le sue carte su un lunghissimo arco temporale che si svolge prima, durante e dopo il fumetto. Per Lindelof dare risposte ai tanti interrogativi che butta nella mischia nelle sue storie non è mai stato prioritario – Lost e The Leftovers ne sono prova lampante – ma stavolta ha voluto dare un senso compiuto alla vicenda di Angela Abar.
Il suo Watchmen è una serie che stupisce anche per la cura del comparto tecnico in cui brilla una colonna sonora sbalorditiva. La potentissima soundtrack originale, una tra le migliori realizzate per il piccolo schermo, è firmata da Trent Reznor, frontman dei Nine Inch Nails, e da Atticus Ross che dei NIN è produttore; ai loro pezzi, in cui spicca il tema musicale di Sister Night ed una poetica cover strumentale di Life on Mars di Bowie, si affianca una scelta di brani variegata ed evocativa che va dal Claire de Lune di Debussy a una cover di I Am The Walrus dei Beatles.
Insomma, Lindelof in Watchmen ci ha messo di tutto: cuore, idee, musiche, grandi personaggi e una buona dose di ironia, calando questi ingredienti in una vicenda imperniata su un argomento tristemente attuale come la questione razziale e il suprematismo bianco. La sua serie ha creato aspettative, teorie e dibattiti in rete come solo le grandi storie sanno fare, e inoltre ha avuto l’apprezzabile merito di non usare spiegoni per raccontare l’antefatto della serie a chi non conosce il fumetto, rendendosi perfettamente godibile anche agli occhi di chi non ha mai letto la storia di Alan Moore.
Un’operazione riuscita che, trasudando amore e rispetto per il materiale sorgente, ha dimostrato che il miglior modo per omaggiare un cult non è riscaldarlo ma avere il coraggio di cambiarlo.
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