TWR la (psico)analisi di The Punisher: dallo street level al guerrilla level

Dopo 3 ottime stagioni (Daredevil 1 2, Jessica Jones), l’asticella della qualità delle serie Marvel Netflix ha iniziato a calare inesorabilmente. Lo spartiacque è rappresentato dall’episodio 1×07 di Luke Cage, per la precisione l’inizio del tracollo è segnato dall’ingresso in scena di Diamondback, personaggio talmente squallido da sembrare uno dei villain on the week di Arrow.

Poi, a peggiorare le cose, è arrivato Iron Fist lo sciocchino, e la sua serie in cui il livello delle coreografie marziali era quello di un centro di fisioterapia per la terza età.

Infine il passo falso di quella che avrebbe dovuto essere il culmine di 3 anni di storie: The Defenders. Che ok, alcune cose si salvavano, me non era certo il crossover dei sogni a coronamento di 3 anni di programmazione supereroistica su Netflix.

The Punisher è arrivato, dunque, in un periodo di sostanziale sfiducia nei confronti del Marvel Netflix Universe. Ma c’era un lumicino di speranza rappresentato dal buon ricordo che avevamo del Frank Castle visto in Daredevil 2. Una stagione che, più che un sequel di Daredevil, era la stagione d’esordio del Punitore, vista la centralità di quest’ultimo che, con la sua furia omicida, ha rubato la scena ai continui “ti amo E INVECE NO” tra Matt ed Elektra.

L’humus su cui si sviluppa The Punisher è quello dei veterani di guerra in cerca di una collocazione nella società: c’è Curtis che è quello che ha fatto pace con se stesso, c’è Billy Russo (aka Jigsaw) che con la guerra si è fatto i big money, c’è Lewis che ha parecchie rotelle fuori posto. E poi c’è Frank che, a differenza di quanto avremmo potuto immaginare dopo aver visto Daredevil 2, non ha ancora fatto piena luce sull’intrigo dietro la morte della sua famiglia. 
Il motore della serie, come previsto, è proprio la rabbiosa vendetta di Frank affiancato nella sua crociata dalla prezzemolina Karen Page e da due new entry: l’ex operatore dell’NSA Micro che si rivela un ottimo sidekick, e l’agente della homeland security Dinah Madani (unico membro del cast di supporto a non avere una controparte cartacea nella lunghissima run di Garth Ennis sul Punitore) che vanta l’invidiabile primato di essere il primo personaggio dell’universo cinetelevisivo Marvel a mostrare on screen un paio di chiappe ignude.  


– Enjoy –

Quel che è apprezzabile della serie è, in primis, la buona dose di violenza (talvolta persino creativa) ed i litri di sangue versati che aumentano con il progredire degli episodi. Aspetto questo che nelle ultime serie Marvel Netflix era stato parecchio edulcorato. Ma d’altronde Frank è un tutt’altro tipo di vigilante, è il primo a non avere superpoteri tra i membri della combriccola Netflix e, più che un eroe stree level, è un antieroe guerrilla level.

Il canovaccio della serie alterna Frank che uccide gente e l’agente Madani che scimmiotta Carrie Mathison di Homeland ma, qua e là, lo showrunner Steve Lightfoot (ricorrente sceneggiatore di Hannibal) ha innestato alcune piacevoli variazioni sul tema. Il momento Fast and Furious dell’episodio 4 con Frank e Madani negli inediti panni di Toretto e Letty, la parentesi videoludica dell’agguato nel bosco dell’episodio 5 in cui la visuale dei caschi dei mercenari ricorda uno sparatutto in prima persona, e infine la narrazione asincrona dell’episodio 10 in cui l’agguato al senatore viene mostrato da diversi punti di vista con Frank che raggiunge vette di purissimo John McClane.

Ciononostante The Punisher risente un po’ dell’impostazione da 13 episodi che (tranne nel caso di The Defenders) rappresenta il formato standard delle serie Marvel Netflix: prima di salire di tono negli ultimi 4 episodi (raggiungendo il suo climax nell’ep. 1×12, il migliore della serie), nella parte centrale la stagione (episodi 6-9) si ha la sensazione che la storia sia un bel po’ stiracchiata con Frank che va e viene da casa della famiglia di Micro e Madani che si alterna tra copule e chiacchiere in ufficio. A questo aggiungete che le buone idee di cui vi parlavo più su non sono sempre supportate da regie all’altezza, acuendo la nostalgia per l’eccellente comparto tecnico delle due stagioni di Daredevil, la cui qualità produttiva è un lontano ricordo per gli attuali standard Marvel/Netflix.


– Dai Frank, non te la prendere… –

Insomma The Punisher è un netto miglioramento rispetto agli ultimi passi falsi di Netflix con le sue licenze Marvel ed ha uno dei suoi punti di forza in un Jon Bernthal che, con la sua solita faccia da cagnaccio rabbioso, è ruvido e tremendamente credibile. Ma, al tempo stesso, resta un po’ di rammarico perché sarebbe bastato qualche piccolo accorgimento per tirar fuori una stagione ancor più convincente.   

Io vi saluto ricordandovi che vi aspetto su Facebook e, mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate di The Punisher nei commenti.

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1 commento su “TWR la (psico)analisi di The Punisher: dallo street level al guerrilla level

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