Tesoro, mi si è ritretto il super…
– FERMO! L’hanno intitolata tutti così la recensione di Ant-Man. Non cadere nel pozzo senza fondo della banalità, almeno tu cambia titolo. –
Giusto. Allora potremmo parlare di un Piccolo Grande Eroe… solo un piccolo grande eroe. Niente più di questo, niente piùùùùùùù
– ALT! La citazione a Baglioni, se possibile, è pure peggio. E comunque anche quella l’hanno già fatta su XL di Repubblica. –
Ok, ho trovato: Ant-Man, le dimensioni non contano!
– Aridaje. Già fatto. E poi a questa puttanata che le dimensioni non contano non ci crede nessuno. Vallo a dire a quelle che sono state con Rocco e poi mi dici. –
Va bene allora questa è la (psico)analisi senza sottotitolo di Ant-Man. Così, nuda e cruda.
Si parte.
Brevi cenni di storia. Per chi non lo sapesse, il progetto per portare Ant-Man al cinema partì ancor prima di Iron Man. Prima che Mastro Feige forgiasse nel Monte Fato del nerdismo più sfrenato il Marvel Cinematic Universe.
Sceneggiatore e regista designato già un decennio fa, avrebbe dovuto essere Edgar Wright, la mente dietro la Trilogia del Cornetto, un trittico made in UK davvero niente male con Simon Pegg e Nick Frost composto da L’Alba dei Morti Dementi (commedia zombie), Hot Fuzz (commedia poliziesca, per me il migliore dei tre) e La Fine del Mondo (commedia apocalittica). Sempre ben accolti da critica e pubblico, i tre film, totalmente slegati l’uno dall’altro, hanno un impercettibile punto in comune: il cameo di un Cornetto Algida.
Ma, proprio quando finalmente si era deciso di ritagliare uno spazietto per Ant-Man stabilendone la release per l’estate del 2015 e le riprese stavano per partire, ecco il colpo di scena: Edgar Wright bisticcia con mamma Marvel. Le divergenze tra i due litiganti sono verosimilmente legate alle necessarie modifiche allo script per far rientrare anche il supereroe miniaturizzato nella continuity del MCU. Così i due litiganti si separarono a maggio 2014 senza fare mignolino…
E via coi social necrologi da parte dei colleghi. Primo fra tutti, Joss Whedon, il regista dei primi due Avengers che, tristo e mesto, si fa un selfie col Cornetto in mano e poi dichiara che lo script di Wright era il migliore mai realizzato per un film Marvel.
Che poi, senti Joss Whedon, di sceneggiature tu meglio che non parli. Che, per carità, mi sono pure divertito con quelle due ore di ‘bbotte tra supereroi in Age of Ultron, ma alla fine il tuo film mi è rimasto talmente impresso nella memoria che in testa ho appena 2-3 scene appiccicate con la sputazza. Questo perché è buona la componente action ma di sceneggiatura e/o trama, in Age of Ultron, non c’era nemmeno una pallida ombra, caro Giossuedon. Nemmeno tre ideuzze in croce. Solo ‘BBOTTE!
Ma torniamo al topic…
E così Wright è rimasto nei credits del film come co-sceneggiatore e produttore esecutivo, ed è arrivato questo tale Peyton Reed, un regista di robe scrause. Mentre ad apportare i cambiamenti alla sceneggiatura sono stati Adam McKay e Paul Rudd, il protagonista del fim che, sembra, sia intervenuto prevalentemente sui suoi dialoghi.
Rudd, memorabile interprete di film demenziali come Walk Hard, Facciamola Finita e, soprattutto, di una pietra miliare come Anchorman (e del suo sequel Anchorman 2 – Fotti la Notizia), è un attore molto versatile che da il meglio di se proprio nelle commedie.
Ed è proprio per questo che Ant-Man funziona così bene: è sì un film col supereroe in tutina, ma è dichiaratamente e fieramente una commedia. Senza pubblicità ingannevole.
Ormai l’abbiamo capito tutti, i film Marvel non sono dark, hanno toni leggeri e scanzonati. E riescono meglio (tranne The Winter Soldier che è venuto fico lo stesso) proprio quelli in cui il lato action comedy viene fuori senza vergogna, come Guardiani della Galassia o Iron Man 3 (sì, io appartengo alla fiera minoranza a cui è piaciuto Iron Man 3, fatevene una ragione).
Ant-Man è un film che non si prende sul serio, non millanta toni tormentati: Scott non vuole salvare il mondo ma si batte per riconquistare sua figlia, e lo scontro più epico si svolge dentro una ferrovia giocattolo nella cameretta di una bimba. E’ un film onesto e corente, che si presenta per quello che é: un action comedy per famiglie. Perché se vuoi farmi percepire il clima da fine del mondo con un robot genocida ed una città che esplode in cielo e poi ci sono meno vittime che dopo un’infestazione di pidocchi alle scuole elementari, allora non sei stato così onesto ed io spettatore mi sento un filo perculato.
Molto ben riuscito poi il casting del film, il mentore di Scott Lang/Paul Rudd è Michael Douglas, nei panni di Hank Pym. Un altro premio Oscar che si aggiunge alla già nutrita schiera di attori che hanno contribuito a costruire il Marvel Cinematic Universe: Robert Redford, Benicio Del Toro, Ben Kingsley, Jeff Bridges. Il Pym di Douglas è ben più attempato rispetto alla controparte cartacea, oltre che ripulito dalla sua inclinazione alla violenza domestica (che fa poco Disney).
A questo proposito non posso non ricordare uno tra i momenti più incredibili degli Ultimates di Mark Millar: quando l’Ultimate Hank prova ad uccidere Janet/Wasp con l’insetticida. Come spesso capita, sto divagando…
Dicevo che Michael Douglas è davvero una gran bella aggiunta al MCU e in ogni ciak in cui è presente ruba letteralmente la scena a tutti. L’immancabile fattore Patata, poi, è fornito dalla sesquipedale Evangeline Lily (l’indimenticabile Kate, la profumiera di LOST). Ma, a meritare la menzione, è anche Michael Pena nei panni di Luis, eccezionale spalla con tempi comici perfetti: i suoi “racconti” sono la parte migliore del film.
Poi c’è il villain che, come spesso capita, è il punto debole dei film Marvel (lo sottolineava anche Giorgione il Pacioso Martin nella sua personale review di Ant-Man) ed è interpretato da Corey Stoll che ricorderete per il ruolo di Peter Russo in House of Cards e per quello del protagonista di The Strain, Ephraim Goodweather, ovvero Eufemio Buontempo.
I collegamenti con il MCU sono ben riusciti, a partire dal flashback negli anni ’80 che apre il film e che vede protagonista un Michael Douglas ringiovanito grazie ad Extreme Makeover Computer Grafica Edition e con un paio di altre vecchie conoscenze. Poi, come preannunciato già negli spot, c’è anche un divertente siparietto con Falcon (e due ottime scene post-credit!) Probabilmente questi saranno tra gli elementi che Wright non aveva previsto ma, a differenza di quello che vi dicono certi soloni della rete, forse non sapremo mai cosa di preciso sia stato modificato o stravolto dello script originale. Quel che è certo è che Ant-Man è permeato da un humor fuori dalle righe, e che la penna di Wright comunque si sente ancora.
L’idea di rivisitare e miscelare l’origin story di Ant-Man (che poteva essere l’ennesima di una ormai interminabile serie) con un’impostazione da heist movie à la Ocean’s Eleven si è rivelata azzeccata ed il risultato è una piacevolissima commedia con quello spirito che tanto rimpiango di alcune pellicole anni ’80. Un risultato ancor più grande se pensiamo che fare un film su un supereroe che diventa piccolissimo non era poi così semplice (ok, alla fine il doppio senso sulle dimensioni mi è scappato!)
Sono certo che lo Scott Lang di Paul Rudd sarà un beniamino del pubblico per i prossimi anni (e che lo rivedremo spesso nei film degli Avengers).
Noi ci risentiamo presto per parlare della seconda stagione di True Detective (di cui sono uno dei pochi estimatori) e vi ricordo che, se non volete finire nello spazio quantico, vi tocca l’ineluttabile like alla pagina facebook che si aprirà cliccando sull’immagine qui sotto:
3 commenti su “TWR la (psico)analisi di Ant-Man senza doppi sensi sulle dimensioni nel titolo”
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