Si è detto che Whiplash sia Full Metal Jacket ambientato nel mondo della musica. È vero.
Gran Premio della Giuria e del Pubblico nella categoria U. S. Dramatic del Sundance Film Festival, cerimonia dedicata al cinema indipendente americano, seconda opera di un regista appena trentenne e candidato a cinque premi Oscar, Whiplash tratta la passione, gioia e orrore del protagonista Andrew (Miles Teller), per la musica e del rapporto conflittuale che avrà con la propria ambizione e con un eccentrico insegnante che educa gli studenti con metodo militare (i paragoni con il famigerato sergente Hartman si sprecano). Terence Fletcher – l’insegnante di cui sopra – farà di tutto per portare oltre il limite i propri studenti. Nell’intento di trovare un nuovo Charlie Parker, sfrutterà il potere della frustrazione come incentivo al miglioramento, eccedendo in tale tipo di condotta e portando il protagonista a piegarsi tanto sulla batteria, da divenire man mano un grottesco ritratto di sé stesso: le mani sanguinanti, una tensione lampante nello sguardo ed un’espressione sempre rabbiosa in volto.
Se Full Metal Jacket va raccontando fatti realmente accaduti, rappresentandone l’eccesso in modo marcatamente caricaturale attraverso il personaggio del sergente Hartman (ma sfruttando comunque crudezza e realismo più di in ogni altro elemento della pellicola), Whiplash sorvola quasi totalmente il realismo ed eccede in ogni elemento: lo sforzo psicofisico immane del protagonista, l’ossessione di questi di divenire uno dei grandi, il modus operandi di Fletcher, sono gli elementi necessari all’intento di sublimare l’eroe ed il suo percorso nel raggiungimento della meta e della morale.
La narrazione delle immagini segue passo passo quella della musica: brevi tocchi alla batteria dai lunghi intervalli, ritmo delle immagini lento, bacchette sempre più veloci, montaggio sempre più frenetico. La colonna sonora si fa dolce accompagnamento in alcuni punti, ma per la maggior parte della durata del film rappresenta la frusta sulle mani disperate del protagonista che s’agita e si consuma pur di tenere il tempo.
Nella vicenda narrata da Chazelle importa più la meta che il viaggio, così come è per un ragazzo ossessionato da un determinato obiettivo. Durante il percorso però l’opera inciampa più volte, non esprimendo al meglio le idee fornite, i personaggi, le situazioni e soprattutto cadendo in certi cliché che rovinano l’intera visione della pellicola, attenuando il coinvolgimento dello spettatore. Seguendo però questo percorso, incespicando qua e là, s’arriva al finale. E che finale! Un’esplosione di rabbia, fatica, dolore, rancore. E di musica.
Chazelle si dimostra bravo nel trasporre gesti ed emozioni. La sceneggiatura consente i tempi giusti, le entrate giuste e il giovane filmmaker riesce a coordinare gli attori eccellentemente. Questa buona costruzione tecnica pecca però nei dialoghi, mai memorabili: questi tendono spesso ad un apice che mai raggiungono, come una divertente discussione fra amici che giunge ad una fastidiosa incomprensione e non vuole essere continuata. Si attende passo passo la prossima scena sperando in una simbiosi più riuscita fra dettagli registici, interpretazioni attoriali, ritmo e dialoghi, un’armonia che sarà raggiunta solo nel succitato finale. Un finale in cui, guarda caso, le linee di dialogo sono quasi azzerate e, a farla da padrona, è la musica, ora frenetica ora leggera, trattenuta prima e potentemente rilasciata poi, come un atto d’amore carnale che spegne ogni altra emozione e pensiero e concentra la sua forza nella passione e nell’energia del corpo, sempre in movimento, sempre oltre i suoi limiti.
Le interpretazioni convincenti di J. K. Simmons – uno dei probabili vincitori dell’Oscar nella categoria Miglior attore non protagonista – e di Miles Teller, unite ad una regia capace di un coinvolgente (sebbene incostante) ritmo e ad una valida colonna sonora, confezionano sicuramente un bel film che merita di essere visto.
Personalmente, non ho visto il film tanto acclamato sulla rete, sui siti specializzati e ai festival, quanto piuttosto una pellicola che segue una struttura già vista prima, alcuni cliché evitabili, dei dialoghi che premono timidamente sull’acceleratore, funzionando solo nei momenti intervallati dalla musica, che lo condannano – almeno a mio modo di vedere – ad essere marchiato come il solito film americano. Insomma, stesso minestrone, diversi, piacevoli, ingredienti.