Alcune grandi culture credono nella reincarnazione e nel fatto che la vita sia un circolo continuo: nulla si distrugge, nulla si crea. Applicando questo modo di pensare ai fumetti, abbiamo la rinascita continua di personaggi morti e sepolti (in senso letterale); ma come si può tenere morto qualcosa che non è veramente vivo, come appunto un personaggio dei fumetti?
Un modo c’è: basta renderlo protagonista di storie insignificanti, lontani dall’immaginario del suo lettore abituale, ingabbiandolo in un circolo vizioso che porti alla fine di quel personaggio come lo intendiamo da sempre, condannandolo all’oblio.
Dylan Dog era, a mio modo di vedere, molto vicino ad un baratro nel quale, se ci fosse caduto, non si sarebbe più rialzato. A tendergli la mano ci ha pensato Roberto Recchioni. E da compagno di avventure di Dylan, gliene sarò sempre grato.
Questa non vuol essere una semplice recensione, ma un invito a chi non abbia mai letto Dylan Dog a farlo a partire dal numero 325. Dopo molti mesi passati a cercare un senso alle storie dell’inquilino di Craven Road, finalmente Carlo Ambrosini ci riesce, dando il via a quello che sarà il nuovo corso di un classico del fumetto italiano.
Fin da subito è chiara una cosa: ci troviamo nuovamente davanti al Dylan di molte lune fa, il seduttore spiantato, idolo di altri spiantati, che fa affidamento sul suo quinto senso e mezzo e si circonda di collaboratori se non proprio saggi (come il buon Groucho) quantomeno ben caratterizzati.
La storia non ha le atmosfere del vecchio Dylan, però, ci troviamo dinanzi a qualcosa di nuovo, un prodotto scritto da un fan per i fan del personaggio. Malgrado alcuni piani temporali non siano ben definiti nello svolgimento della trama (e forse si abusa di troppi flashback) la storia si tiene in piedi, la storia ha quel quid misterioso e incomprensibile che attraversa tutto il mondo dell’horror. E soprattutto Dylan torna a fronteggiare un male che ha molte facce, un male eterno che conosce bene l’indagatore dell’incubo e che nel corso degli anni è stato rappresentato in vari modi e con aspetto sempre diverso. Un male generico ma non meno terrificante, che permette ai personaggi di dialogare sull’origine del male e sulla sua reale esistenza.
Perché in fondo Dylan Dog sta tutto nella facoltà di credere o meno, il quesito irrisolto di Dylan (e di chi ne ha scritto le storie, ma soprattutto del suo inventore Sclavi) non è i mostri esistono? ma: chi sono davvero i mostri?
Senza banalizzare questo concetto che traspare dalla storia, Dylan torna a sperare nel genere umano come aveva sempre fatto nei suoi anni d’oro, non risponde col tipico “i veri mostri siamo noi”, citando ora questo ora quell’altro filosofo; la sua risposta è pragmatica, ma di un pragmatismo che adesso – e perché no? è giusto attualizzare una rinascita di tale portata – in Italia è necessario come l’aria che respiriamo: “[…] a conti fatti, il Diavolo, probabilmente, è ancora un’idea necessaria!”.
La storia può non averci colpito in modo particolare, ma è una storia nella storia, non è il comprimario del volume ad essere un morto che cammina e che necessita di una nuova vita, ma Dylan. E la sua nuova vita comincia col 325. Se non avete mai letto Dylan Dog e se nutrite le stesse speranze che nutro io per il ritorno alla grande di questo personaggio, allora andate in edicola, acquistate il fumetto e tornate a casa felici di stare partecipando alla ri-nascita di qualcuno (e non qualcosa, perché, per me Dylan è un amico più vero di molte persone che potrò mai incontrare in vita mia).