TWR perché 3 Manifesti a Ebbing, Missouri è un film bellissimo

In questi giorni si parla giustamente tantissimo di 3 Manifesti a Ebbing, Missouri, il film scritto e diretto da Martin McDonagh che, dopo aver vinto un meritato Golden Globe, si presenta ai nastri di partenza degli Oscar con 7 nomination.

Fulcro del racconto di McDonagh è Mildred Hayes, una madre colpita dal più straziante dei dolori, quello di esser sopravvissuta alla figlia brutalmente assassinata. Non volendosi arrendere all’indolenza delle forze dell’ordine, Mildred affitta 3 cartelloni pubblicitari per gridare la sua rabbia nei confronti dello sceriffo locale e della polizia tutta. Un plot senz’altro originale ma che, da solo, non basta a giustificare la bellezza di 3 Manifesti e l’unanime plauso della critica. Il pregio principale del film di McDonagh, infatti, è un altro: farvi credere in più di un’occasione che stia per succedere quello che vi aspettereste se questo fosse “il solito film”, salvo poi gridarvi in faccia “TI HO FREGATO!” ed andare da tutt’altra parte (vedi, ad esempio, quel che accade alla storyline di Woody Harrelson). In 3 Manifesti a Ebbing, Missouri non ci sono buoni e cattivi, non c’è nessun percorso di redenzione, non c’è una morale su cui riflettere e non c’è un cerchio narrativo che si chiude.
McDonagh ha mandato sonoramente a fanculo i canovacci che il cinema hollywoodiano ci propina con regolarità realizzando un film granitico, inaspettato e schietto. Un progetto riuscito magnificamente bene anche grazie a tre strepitose interpretazioni. Innanzitutto quella della monumentale Frances McDormand nei panni di Mildred, una donna che non conosce mezze misure.


– Sta mano pò esse fero o pò esse fero –

La signora McDormand/Coen, come ben saprete, è la moglie di Joel Coen ed ha recitato in alcuni fortunati film firmati dal marito e dal di lui fratello Ethan, su tutti Fargo, che le è valso un Oscar (senza dimenticare, però, altri memorabili personaggi come l’ottusa personal trainer di Burn After Reading). La presenza della McDormand, unita all’alternanza tra momenti drammatici e siparietti grottesco-demenziali (vedi le scene che coinvolgono la ragazza che lavora allo zoo) riportano inevitabilmente alla mente l’approccio narrativo proprio di alcuni film dei Coen come Non è un paese per vecchi e, appunto, Fargo. Ma in realtà c’è una grossa differenza: mentre i Coen raccontano la violenza, una violenza incidentale e figlia del caso, il tema portante di 3 Manifesti è un altro: la rabbia, e come questa, ad un certo punto, svanisca. 

Parlare solo di Frances McDormand, però, sarebbe ingeneroso nei confronti degli altri due co-protagonisti, anche loro, come la signora Coen, in lizza per la statuetta dell’Academy: Woody Harrelson, che è il volto dello sceriffo Willoughby, e Sam Rockwell che, dopo una lunghissima carriera da gregario con pochi guizzi degni di nota (su tutti Moon di Duncan Jones), ha trovato, nei panni del gretto e razzista agente Dixon, il ruolo della vita. Anche se non è possibile, perché concorrono nella stessa categoria (attore non protagonista), l’Oscar lo meriterebbero entrambi.

Dopo il sorprendente In Bruges (che, ehi, recuperatelo al più presto se non lo avete visto) e 7 Psicopatici, film divertente ma meno equilibrato che strizzava l’occhio al primo Guy Ritchie, McDonagh ha fatto il centro perfetto con 3 ingredienti, tanti quanti sono i manifesti a Ebbing: originalità, rabbia e cast. Di film così coraggiosi sarebbe bello vederne più spesso.

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