It di Stephen King viene erroneamente considerato un capolavoro della narrativa horror ma It è, prima di tutto, un romanzo di formazione, una grande favola corale su dei bambini che sconfiggono un mostro, uno Stand By Me con l’aggiunta di un clown assassino.
Dopo oltre trent’anni dalla sua pubblicazione, l’avventura generazionale della banda dei perdenti della piccola cittadina di Derry è diventata uno di quei classici senza tempo e, come tutte le favole radicate nell’immaginario collettivo, da Pinocchio a La bella e la bestia, è inevitabile che anche It venga periodicamente aggiornato per le nuove generazioni cercando di incontrare i gusti del pubblico che, col passare degli anni, si modificano.
Il romanzo di King uscì nel 1986 e fu un successo immediato. Cavalcando l’onda di Nightmare, Poltergeist e Venerdi 13, saghe horror che spadroneggiavano nei cinema negli anni Ottanta, nel 1990 arrivò in televisione una miniserie in due parti con Tim Curry (l’indimenticabile Frank-N-Furter del Rocky Horror Picture Show) a vestire i panni di Pennywise, il diabolico clown dai denti aguzzi.
Il Pennywise di Curry non deluse le aspettative e raccolse nel migliore dei modi il testimone di Freddy Krueger e Jason Voorhees diventando, assieme a Bob di Twin Peaks, il più inquietante personaggio pop dei primi anni Novanta. La miniserie televisiva era rispettosa del materiale sorgente e, pur tralasciando alcune sequenze del libro per i limiti tecnici dell’epoca, nelle sue tre ore rendeva onore ai personaggi e alle loro backstory (un aspetto, questo, fondamentale visto che la caratterizzazione dei protagonisti è la cosa che a King riesce meglio). I due episodi, così come il romanzo, vedevano un’armonica alternanza dell’infanzia dei piccoli membri del Club dei Perdenti e delle loro controparti adulte costrette bruscamente a ricordare il conflitto con Pennywise. Un modo efficace per dare risalto ai due temi portanti dell’epopea dei Perdenti: l’infanzia e la memoria.
Ventisette anni dopo la miniserie televisiva – curiosamente la stessa durata del letargo di Pennywise tra una stagione di caccia e l’altra – nel 2017 arriva nei cinema il primo capitolo (di due) di questo nuovo adattamento. A dirigere è Andrés Muschietti, reduce dal buon successo di pubblico di un horror abbastanza ordinario come La Madre.
La scelta della produzione – voluta in origine da Cary Fukunaga, già regista della memorabile prima stagione di True Detective poi allontanatosi dal progetto per divergenze creative – è di modificare radicalmente l’impianto narrativo del libro di King con una suddivisione molto schematica: nel Capitolo 1 viene narrata l’infanzia dei protagonisti e nel Capitolo 2, uscito nelle sale da alcuni giorni, la loro età adulta. Il tutto spostando la lancetta dell’orologio trent’anni avanti: le due linee temporali del romanzo erano ambientate lei 1957 e nel 1984, mentre i film di Muschietti si svolgono nel 1989 e nel 2016.
Spostare il racconto dei bambini negli anni Ottanta è una mossa furba per dare ai baby perdenti un’estetica à la Goonies che, sfruttando l’onda lunga della popolarità di Stranger Things, trasporta lo spettatore in una comfort zone nostalgica che è tornata di gran moda e, almeno per ora, riscuote grande successo. Non è un caso, a proposito, che a interpretare il piccolo Richie “boccaccia” Tozier sia Finn Wolfhard, uno dei protagonisti di Stranger Things in cui è il volto di Mike Wheeler. Tra biciclette, sale giochi e bulletti di provincia, e nonostante qualche jumpscare ben assestato e l’ottima interpretazione di Bill Skarsgard celato sotto il cerone di Pennywise, nel Capitolo 1 di It la componete orrorifica latita ma, nell’ottica di realizzare un film d’avventura basato su un romanzo di formazione, è una scelta che può avere una sua logica.
– da Derry a Hawkins il passo è breve –
L’alternativa, per Muschietti e per la produzione, era quella di seguire la nuova corrente del cinema dell’orrore, quella del cosiddetto elevated horror. Spogliato di quelli che sono gli elementi fondanti del cinema mainstream, come la presenza di creature mostruose, la componente amorosa e il lieto fine, questo sottogenere ha tra i suoi capostiti l’inquietante It Follows e vede oggi in cineasti come Jordan Peele e Ari Aster i suoi più popolari ambasciatori. Diversissimi tra loro, i film di Peele (che col suo Scappa – Get Out ha vinto addirittura un Oscar) e Aster, minuziosamente curati dal punto di vista tecnico, sono accomunati dall’utilizzare una componente sociale e psicologica per creare racconti disturbanti che ti si attaccano addosso anche dopo la visione. Badate bene: questo tipo di horror “di qualità” in realtà non è una novità, semmai un ritorno a quello che il cinema di genere era stato con Shining e L’Esorcista prima di diventare pop-corn movie commerciale negli anni Ottanta con Nightmare, La Casa e compagnia bella.
Sarebbe stata una strada coraggiosa da percorrere, quella di rivedere It in questa chiave più matura e disturbante. Una soluzione che tra l’altro avrebbe avuto dei solidi ganci in quello che è il concept originario di King per la sua opera. Pennywise, infatti, si nutre della cattiveria della gente di Derry o magari, viceversa, è lui ad instillare malvagità nella popolazione (è un circolo vizioso in cui in realtà poco importa quale sia l’origine). La grettezza degli abitanti di Derry, l’odio razziale presente nella backstory della famiglia di Mike Hanlon e l’omofobia sono temi che il Re del Brivido tratta estesamente nel suo romanzo. Purtroppo, eccezion fatta per il prologo del Capitolo 2 che vede l’insensata aggressione ad una coppia omosessuale (ripresa a piene mani proprio dal libro), questo odio sociale – tanto attuale visti i tempi che, ahinoi, viviamo – è totalmente assente nel nuovo It cinematografico.
Se Muschietti avesse voluto turbarci davvero, sin dal Capitolo 1 avrebbe dovuto raccontare questo: la paura di ciò che non si vede, di quel che si cela nell’animo umano e ha scelto, invece, la strada più semplice, quella meno “psicologica”. Pennywise è una personificazione del male, che anche quando si incarna in altre forme – come il lebbroso, la perfida vecchietta o la statua del boscaiolo – è fin troppo tangibile e, oggi che siamo cresciuti, non ci fa più paura come una volta. Il pagliaccio da solo non basta più, ci voleva anche altro.
Ma, come detto in apertura, sotto quella carrozzeria horror It nasconde un metaforone grosso così sulla magia dell’infanzia, la nostalgia dell’amicizia in cui il vero mostro è l’oblio: dimenticare chi siamo e da dove veniamo. Mentre il Capitolo 1 può essere giudicato con una certa benevolenza perché è un buon film d’avventura con protagonisti dei ragazzini, il Capitolo 2 non mette bene a fuoco queste altre fondamentali tematiche che vengono prepotentemente fuori nelle oltre mille pagine del libro.
La scrittura dei personaggi è fuori fuoco, la loro evoluzione impalpabile e il filo che li lega abbastanza sfilacciato, i motivi sono essenzialmente due: la mancanza di quel continuo ping pong tra passato e presente – ok, ci sono alcuni brevi flashback, ma non bastano – e la prova incredibilmente opaca di buona parte del cast. Il belloccio scelto per interpretare Ben Hanscom, tale Jay Ryan, ha il carisma di un comodino IKEA; il Mike Hanlon di Isaiah Mustafa resta nel limbo dell’anonimato; mentre Jessica Chastain si salva solo per la sua bellezza magnetica, ma la Bev adulta è infinitamente meno interessante e tormentata della Bev bambina.
– non valutabile in quanto troppo gnocca –
A deludere è anche James McAvoy nei panni di quello che è, sostanzialmente, il baricentro della vicenda e cioè Bill Denbrough. Ripeto, non è solo colpa degli interpreti ma anche di scelte narrative parecchio discutibili, proprio nel caso di Bill, ad esempio, è inspiegabile aver eliminato del tutto la storyline legata a sua moglie Audra, che avrebbe giovato ad enfatizzare il contrasto tra l’infatuazione infantile per Bev e l’amore per la sua attuale compagna. Ci sono però anche note positive: la prima è lo straordinario Bill Hader, per ora sulla cresta dell’onda per la serie HBO Barry, MVP del Capitolo 2 che viene fuori alla grande tenendo a galla il film. La sua versione adulta di Richie è impeccabile e trova una spalla perfetta nell’ipocondriaco Eddie interpretato dall’eterno comprimario James Ransone.
Certo però che azzeccare due personaggi su sei in un film di tre ore è un problema mica da poco figlio, soprattutto, di una riscrittura che contamina anche il finale. Cercherò di barcamenarmi in uno slalom speciale per evitare di sganciare spoiler rilevanti.
Iniziamo col dire che lo stesso King è presente nel film con un colossale inside joke in cui, con autoironia, scherza sulla sua fama di grande scrittore dai finali insoddisfacenti. Il finale del romanzo è una roba un tantino psichedelica (la Tartaruga, il Macroveso, i Pozzi Neri) ed era la cosa adattata peggio nella miniserie del ‘90 (ragno vs fionda), qui si è scelto di ibridare il rito di Chud con gli horcrux di Harry Potter e fin qui, nonostante fosse una cosa non proprio originale, poteva pure andar bene. Il problema grosso è l’ondata di volemose bene che arriva nell’epilogo con una lettera che non avrebbe dovuto essere inviata e, sopratutto, snaturando il messaggio con cui King ci lasciava malinconicamente al termine del libro: l’ineluttabilità di dover perdere i legami dell’infanzia e l’oblio a cui le sensazioni del passato sono destinate. Un messaggio che il Capitolo 2 di It ha totalmente annichilito, riducendo tutto al confitto con un mostro gigante, come in un qualsiasi film d’avventura o di supereroi.
– Abbracciamoci forte e vogliamoci tanto bene. Andiamo a Derry, Beppe! –
Che non ci fosse la volontà di fare un horror d’autore ma un pop-corn movie era chiaro già dal Capitolo 1, ciononostante il Capitolo 2 di It ha tradito molte aspettative. E, a proposito, non è vero non si può fare un horror mainstream che abbia qualità: A Quiet Place ne è la prova.
Nell’attesa che It si risvegli di nuovo tra 27 anni, quel che resta sono due discreti film che però dimenticheremo molto presto.
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