Fight Club 2 – La trollata di Palahniuk ai suoi fan

La verità? La verità è che la sola notizia di un sequel dell’opera più famosa di Chuck Palahniuk mi ha prodotto l’orticaria. La verità è che per alcuni libri, alcuni film, alcuni fumetti, non dovrebbe essere previsto alcun sequel. Ci sono opere che meriterebbero rispettosamente di essere lasciate lì, dove il loro autore aveva deciso di interromperle, senza badare a interessi commerciali e altre stronzate.

Purtroppo, invece, spesso accade che gli interessi economici e commerciali, che la voglia e la convinzione di bissare un grande successo di critica e pubblico, finiscano per generare orridi sequel dei quali – a conti fatti – avremmo fatto volentieri a meno. Oppure, ancora, può accadere che l’autore abbia l’impressione di aver lasciato qualcosa di non detto o di non corettamente interpretato dai fruitori finali; e che ritenga necessario, dunque, “intervenire” nuovamente sulla sua creatura.

E forse, a volerla guardare dal punto di vista di Palahniuk, è proprio questa la ragione di questo sequel. E’ necessario che il pubblico comprenda che Fight Club, così come tutte le altre opere di intelletto, sebbene celebri e ampiamente apprezzate, continuano e continuarenno ad appartenere al proprio creatore. E’ e sarà sempre lui a decidere il destino delle stesse, dei propri personaggi e delle loro storie. Nessun fan può appropriarsene e deciderne svolgimento, epilogo e intrepretazione autentica… oppure no?

Correva l’anno 1996, quando un giovane scrittore statunitense esordiva nelle librerie americane con il suo primo, originalissimo romanzo. Lo scrittore in questione si chiamava Chuck Palahniuk e il suo romanzo d’esordio, Fight Club, un libro destinato, nel bene e nel male, a diventare un punto di riferimento per più di una generazione.

In Fight Club, Palahniuk affrontava in modo estremo il tema del consumismo e dei modelli imposti dalla moderna società globalizzata. Il protagonista del racconto, attraverso una sempre maggiore presa di coscienza (o perdita della stessa, a seconda dei punti di vista), dava vita ad un progetto per l’annientameto del sistema economico-sociale, colpevole – a suo dire – di inibire la coscienza soggettiva di ogni individuo, per conformarlo alla massa e, controllandolo, poter decidere del suo destino. Solo attraverso il combattimento, inteso anche e soprattutto come confronto con se stessi, gli uomini potranno ritrovare la propria libertà.

Un messaggio forte che però non generò un grande riscontro in termini di vendite. Tuttavia, solo tre anni più tardi, il regista David Fincher, impressionato dalla struttura narrativa di quell’opera, dalla sua originalità e soprattutto dalle tematiche trattate, decide di realizzarci un film. Il film ben presto diventa fenomeno di costume e quel giovane scrittore, così fuori dagli schemi, diventa a sua volta uno dei più apprezzati e discussi romanzieri contemporanei.

Ed è così che questa storia, apparentemente pensata per un pubblico di nicchia, si trasforma ben presto in un fenomeno sociale, dando il via a numerosi casi di emulazione. Negli Stati Uniti sono stati diversi i casi di gruppi di adulti o adolescenti che hanno fondato il loro fight club homemade, ispirati dai carismatici monologhi di Tyler. Ma una tale cieca venerazione non è forse assimilabile alla stessa omologazione oggetto della critica di Palahniuk? E’ possibile che gli stessi fan di Fight Club abbiano travisato il messaggio del suo autore, finendo per trasformarsi davvero nella canticchiante e danzante merda del mondo?

Uno smacco talmente grave, da costringere Palahniuk a riprendere le fila di quella storia, solo per dimostrare al proprio pubblico quanto sciocchi, incoerenti e malleabili essi siano. E, per farlo, il vecchio Chuck decide di sostituire ancora una volta il contenitore del messaggio, quasi a sottolineare la poca importanza della forma rispetto alla sostanza. 

La storia, ambientata 10 anni dopo i fatti del libro e del film, ci mostra Sebastian (questo il nome del protagonista, tenuto sconosciuto tanto nel film che nel romanzo) alle prese col suo complicato matrimonio con Marla. Le cose tra di loro non sembrano andare granché bene, tanto che Marla riprende di nascosto a frquentare i già noti gruppi di sostegno. Dal canto suo, Sebastian tenta di adeguarsi con difficoltà al suo ruolo di marito e di padre, malcelando tutto il proprio disagio verso questa vita così tremendamente “normale“.

Ma ciò che il nostro protagonista ancora non sa, è che negli ultimi 10 anni è diventato, suo malgrado, il padrone del mondo. La sua organizzazione, già vista nel precedente capitolo, si è ramificata a tal punto da essere ormai in grado di controllare qualsiasi attività o istituzione; tutto questo, naturalmente, senza che Sebastian ne abbia la più pallida idea. Nel corso di tutti questi anni, la sua irriducibile controparte Tyler ha infatti sempre tramato nell’ombra, costruendo, mattone su mattone il suo folle progetto alle spalle del suo ignaro alter ego. Mentre Sebastian pensava di sognare, Tyler metteva insieme i pezzi del suo immenso impero.

Ed è qui che l’autore sembra fare una sorta di parallelismo tra la storia narrata nel suo romanzo e la storia del romanzo stesso, inteso come fenomeno culturale. Per dirla con un’equazione: Palahniuk:Fight Club=Sebastian:Tyler. Esattamente come Sebastian ha perso il controllo di Tyler, infatti, anche l’autore ha perso il controllo della propria creatura, divenuta ormai un’entità sconosciuta e mutevole nelle mani dei fan sparsi in tutto il mondo. Proprio come accaduto per il fenomeno culturale Fight Club, infatti, anche Tyler è cresciuto e si è espanso oltre i confini del proprio creatore, a cui non resta che inseguire la propria creatura e tentare di riprenderne il controllo. 

Al”autore non rimane dunque che rompere il confine della quarta parete, fare la sua comparsa all’interno della storia e parlare direttamente ai fan di Fight Club, tentando di rivendicare la paternità dei suoi personaggi, ma rendendosi presto conto che i suoi persoanggi sono ormai definitivamente sfuggiti al suo controllo. Un colpo a effetto in pieno stile Palahniuk, ma che risulta essere più una presa di posizione che una vera svolta narrativa. Un esercizio di stile da parte dell’autore che, tuttavia, mi ha lasciato freddino rispetto alle aspettative che nutrivo su storia e personaggi.

Insomma Palahniuk scrive, sì, il sequel di Fight Club, ma lo utilizza per parlare in modo diretto ai suoi fan, per spiegare le proprie ragioni e per mettere qualche puntino sulle i. L’autore gioca con la storia e con i suoi protagonisti, prendendosi gioco del lettore, quasi a voler rivendicare l’esercizio del potere su ciò che ha creato. 

Il resto sono le solite grottesche situazioni, le citazioni, i riferimenti e, più in generale, tanto fan service che il vecchio Chuck lancia in pasto ai fanatici di Tyler e soci. In Fight Club 2 si trova tutto ciò che un vero patito può attendersi: da “il suo nome è Robert Paulson” al Progetto Mayhem, dalle lesioni autoinflitte agli animanli guida; con l’unica, macroscopica, differenza che, in questo caso, tutti questi elementi non sono presenti per arricchire la storia narrata, ma pittosto per dimostrare il delirante (e divertente) assunto di Palahniuk.

Insomma, una storia divertente e per nulla banale che, tuttavia, non risulta sufficiente ad accontentare chi – come me – sperava di immergersi nuovamente nell’atmosfera grottesca, disturbante e volutamente forzata che ha sempre caratterizzato Fight Club. Sono pronto a dichiararmi ancora una volta catechizzato dal maestro Palahniuk, ma mentirei se dicessi che era ciò che derisideravo quando ho deciso di acquistare questo fumetto.

Per quanto riguarda l’aspetto grafico ed editoriale, invece, non ho nulla da dire. L’ottimo Cameron Stewart ci regala una lezione di fumetto, adattando l’elaborata sceneggiatura di Palahniuk a delle tavole praticamente perfette nella loro semplicità e fruibilità. Solo un maestro del fumetto come Stewart poteva riuscire in un compito così arduo, vista la poca attidudine dello sceneggiatore a questo tipo di media e la complessità metatestuale di questo Fight Club 2. Le copertine di David Mack, potenti ed evocative, rappresentano indubbiamente un altro punto di forza del volume.

L’edizione cartonata, pubblicata in Italia da Bao Publishing, conserva in questa occasione le dimensioni originali del fumetto e raccoglie tutti e dieci gli episodi usciti negli Stati Uniti.  

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