TWR la (psico)analisi di Luke Cage: alti e bassi del Bud Spencer Marvel

La prima stagione del Daredevil made in Netflix rappresenta a tutt’oggi il gold standard della serializzazione supereroistica in TV. Un picco qualitativo eccezionale, cui hanno fatto seguito due valide conferme: la seconda stagione con protagonista il cornetto di Hell’s Kitchen e l’esordio di Jessica Jones. Proprio per questo, le aspettative per Luke Cage, nuova serie ambientata in quell’angolo del Marvel Cinematic Universe riservato a Netflix, non potevano che essere molto alte. Inoltre va premesso che uno dei punti di forza delle serie Marvel/Netflix è il cambio di registro ed atmosfere tra i 3 serial visti finora: Luke Cage, infatti, è un picchiatore burbero alla Bud Spencer immerso – nella prima parte della stagione (cioè quella che funziona) – in una vicenda black-gangster alla The Wire.
Ma, nonostante ciò, stavolta non tutto è andato per il verso giusto. Vediamo perché.

Luke come Bud.
Una tra le cose più riuscite della serie è proprio il suo protagonista, Luke Cage, l’uomo dalla pelle indistruttibile che aveva già esordito nella prima stagione di Jessica Jones esibendosi in un vigoroso coito da wrestlemania con la protagonista. Cage è interpretato da Mike Colter, già visto in Million Dollar Baby e, soprattutto, nel ruolo ricorrente del malavitoso Lemond Bishop in quel gran bel serial di The Good Wife. Colter è decisamente poco espressivo (per non dire monoespressivo), ma va benissimo così: il suo Cage è un uomo di poche parole e tanti schiaffoni, un gigante buono che cammina come un orso con una sonda per colonscopia nel retto e mena in modo ignorante (che anche quella è un’arte).

Niente pose plastiche o atterraggi da supereroe di quelli ammirati da Deadpool, niente armoniosi lanci di scudo né elegante sfoggio di arti marziali. Ceffoni grezzi alla Bud Spencer, calci in culo e pugni, tantissimi pugni, di quelli che sfondano le pareti.

Siamo sempre nel Marvel Universe.
I riferimenti all’universo Marvel e, soprattutto, i collegamenti con le altre serie Netflix sono onnipresenti: a partire dai continui richiami agli eventi della 1a stagione di Jessica Jones (la commozione cerebrale di Luke, il ritorno di Claire, e soprattutto l’approfondimento della origin story del protagonista che in JJ era stata solo accennata), le comparsate di Turk (il delinquentello regolarmente pestato da Daredevil), le armi di Justin Hammer (che fu uno dei due villain di Iron Man 2), qualche cenno agli Avengers che non guasta mai, ed un’infinità di easter egg. Easter egg tra cui spicca il divertente omaggio al primo look di Luke nei fumetti Marvel anni ’70, quando era ancora Power Man, molti anni prima che Bendis lo ripescasse attualizzandolo su Alias.

Ovviamente – chevelodicoafare? – quasi tutti i personaggi secondari hanno una controparte nei fumetti Marvel. 

A proposito del detective Scarfe, personaggio ricorrente nei fumetti di Iron Fist e Power Man, ricordate dove avete già visto Frank Whaley, l’attore che lo interpreta?

Esatto: è l’uomo a cui Jules recita il celeberrimo Ezechiele 25.17 in Pulp Fiction. ‘Mi chiamo Jerda. e non è con le chiacchiere che uscirai da questa merda.’ 

Una grande ambientazione, ma poi…
All’inizio tutto funziona bene. Le atmosfere sono fantastiche e la colonna sonora – tanto quella originale che i brani selezionati – è quanto di meglio visto finora in una serie TV di genere supereroistico (se vi può interessare, la soundtrack sta per essere pubblicata su vinile). A proposito delle musiche va fatto un plauso per l’ottima idea di mostrare le esibizioni di cantanti rap ed R’n’B al club di Cottonmouth con una menzione d’onore per le performance di Raphael Saadiq nell’episodio 1×01 e di Faith Evans nell’1×02. Applausi. 

E, per restare in ambito musicale, come non segnalare i siparietti di Luke con Method Man del Wu-Tang Clan con cui scambia in più di un’occasione la sua felpa sforacchiata dai proiettili?   

Come dicevo in apertura, Luke nella prima parte della stagione si trova coinvolto in una vicenda che ricorda – con le dovute proporzioni – The Wire, il supercult poliziesco della HBO (un aspetto confermato anche dallo showrunner di Luke Cage, Cheo Hodari Coker): il malavitoso locale Cottonmouth gestisce traffici di contrabbando dal suo locale di facciata ed ha un grosso aggancio politico con la cugina Mariah Dillard. A proposito, caso vuole che in Luke Cage ci siano parecchi attori proprio di The Wire (tra cui anche lo stesso Method Man). Li riconoscete?

Il problema viene fuori dopo l’ottavo episodio, ed è la più grossa criticità della serie: nella seconda parte della stagione, infatti, la situazione cambia bruscamente con l’ingresso in scena di Diamondback (interpretato da uno che ha la classica faccia da attore di Arrow) e l’unico villain a mantenere un minimo di credibilità è Shades (interpretato da Theo Rossi, quell’infamone di Juice dei Sons of Anarchy). L’intreccio narrativo va a farsi strabenedire e diventa più lacunoso dell’alibi di O.J. Simpson. Esempi: la vicenda del sequestro/assedio all’Harlem Paradise non ha alcuna logica soprattutto perché – SEGUONO SPOILER – con dozzine di ostaggi pronti a testimoniare di essere stati salvati da Cage, come è possibile che la polizia continui a ritenere lo stesso Cage responsabile del sequestro? Per non parlare poi della ferita al braccio di Misty che passa dal livello “amputazione imminente” a quello “vado in palestra a sfondarmi di bicipiti” in un battibaleno, manco Claire fosse un chierico patriarca di Dungeons & Dragons. FINE SPOILER.
Molto meglio sarebbe stato insistere sull’intreccio criminale che faceva capo a Cottonmouth, magari ampliandolo con della backstory collegate al sottobosco criminale di Harlem. Così, purtroppo, la sensazione è che non ci fossero idee e materiale per 13 episodi con il risultato di aver decompresso eccessivamente la trama. Anche se, devo dire, che il finale – che è il più aperto tra quelli visti finora nei serial Marvel Netflix – non mi è affatto dispiaciuto.

Altre due piccole note sul registro:
– il product placement è smodato. Luke usa solo felpe Carhartt, ad Harlem hanno tutti le cuffie Beats e soprattutto si beve Belvedere al posto dell’acqua minerale.
– la famosa frase di Luke “Sweet Christmas”, nelle edizioni italiane dei fumetti è generalmente stata convertita in “Cristoforo Colombo”. Nella serie TV si è adottata questa soluzione solo una volta (vado a memoria) e, nelle altre occasioni, è stata doppiata a random con “Dolcissimo Natale” e persino con un banalissimo “Santo Cielo”. Ok, lo so, sono un fissato ma…

In conclusione, di Luke Cage ho molto apprezzato il contesto fortemente caratterizzato in cui si svolge e la gran parte dei personaggi (con una menzione d’onore per le ipnotiche gemelle di Misty, presentate in grande stile nel primo episodio). Purtroppo, però, il passaggio a vuoto del blocco di episodi 9-12 lascia l’amaro in bocca di un’occasione sprecata viste sia la buona fattura tecnica che le valide premesse della serie. 


– Misty, non ti dimenticherò –

Adesso non ci resta che aspettare l’esordio del Terence Hill di Luke: ovvero Iron Fist. E, visto che il calendario Marvel/Netflix è diventato molto affollato per l’immediato futuro (dopo Iron Fist arriveranno The Defenders, The Punisher, Jessica Jones 2 e Daredevil 3), chissà che – ispirandosi alla loro vita editoriale – ai due, invece di una stagione 2 stand-alone ciascuno, non venga dedicata una bella serie crossover in perfetto stile buddy movie “Power Man ed Iron Fist”. Potrebbe essere una bella soluzione. 

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2 commenti su “TWR la (psico)analisi di Luke Cage: alti e bassi del Bud Spencer Marvel

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