Dio crea l’uomo, l’uomo crea la società, la società crea l’uomo, l’uomo crea Dio.
Quando l’uomo ha cominciato a unirsi in comunità, si è dato il compito di unire gruppi di persone plasmandone le menti. Per farlo era necessario sviluppare un pensiero comune, ordinato da un potere superiore: un re in una monarchia, un sindaco in una città, la Chiesa in una comunità cristiana e Dio stesso nella Chiesa. In altre parole, la società ha creato un potere superiore che tenesse uniti gli uomini che ne facevano parte, attraverso un modo di pensare comune.
La società in cui oggi viviamo si è evoluta al punto da illudere i cittadini di avere il controllo delle proprie scelte, portandoli a ignorare l’esistenza di un sovrano più o meno visibile che impone loro una morale ambigua, dove giustizia e vendetta si confondono, dove è difficile accettarsi e farsi accettare, e dove il conflitto tra bene e male lascia il posto a un gregge inchinato di fronte all’onnipotente dio denaro.
Questi sono i conflitti psicologici dei quattro personaggi della seconda stagione di “True Detective”, ambientata nella fittizia città californiana Vinci, che assume l’aspetto di una grande metafora della società moderna.
True Detective è una serie tv antologica, quindi abbandona dopo ogni stagione i suoi personaggi per lasciare il posto a dei nuovi detective degni di essere definiti “veri”, in quanto figli dell’ambiente che li ha cresciuti. Se il sud degli Stati Uniti aveva partorito Rustin Cohle, l’abile detective texano dalle affascinanti teoria filosofiche, il perverso dualismo di degrado e eccesso rendono la California il perfetto scenario per una nuova storia che ha poco in comune con l’acclamata prima serie, ma che lascia spazio a protagonisti altrettanto tormentati. Essi sono tre agenti di polizia e un malavitoso, collegati dalla morte di un pezzo grosso della città di Vinci, Ben Caspere, brutalmente seviziato e ucciso da un uomo dalla bizzarra maschera di uccello. Un caso che nella forma fa pensare a un rituale mosso da motivi personali, coinvolge l’intera politica della città, e potrebbe portare i quattro protagonisti a svelare la mortalità degli dei che governano la città di Vinci.
Dedicare otto episodi a quattro protagonisti risulta un’impresa ardua, ma ben riuscita. Pizzolatto si concentra molto sulla loro biografia, consapevole che la loro personalità debba considerarsi una forma di difesa contro i fantasmi del loro passato.
Tra i personaggi abbiamo Ray Velcoro, un alcolista che ha venduto inutilmente la sua anima alla criminalità di Vinci, per rimettere insieme i cocci di una famiglia irrecuperabile; il veterano Paul Woodrugh, che rifiuta la sua omosessualità reprimendo bruscamente la propria natura in favore della normalità che la società gli impone; Ani Bezzerides, il personaggio dal passato più oscuro, sviluppa una personalità forte che possa aiutarla a convivere con i traumi che hanno segnato la sua infanzia.
Il tema dell’ambiguità sociale si riassume nella figura del malavitoso Frank Semyon: se la legge è rappresentata dai peggiori casi umani, il criminale più importante della serie si dimostra il più saggio e brillante, la cui umanità è messa in rilievo dal profondo ma mai idealizzato rapporto con la moglie e dalla sincera amicizia con Velcoro.
In fondo Pizzolatto non costruisce mai dei protagonisti malvagi, difatti ha dimostrato in più di un’occasione di non approvare il manicheismo di Rustin Cohle (quindi l’idea che il mondo si dividesse in bene e male), mostrandoci non personaggi buoni o cattivi, ma esseri umani che riflettono le esperienze a cui il mondo li ha costretti. La tagline di questa seconda serie recita “We get the world we deserve” (“abbiamo il mondo che ci meritiamo”) ma è più corretto dire che è il mondo ad avere le persone che si merita.
Se attori come Colin Farrel e Rachel McAdams avevano dato prova in più occasioni della loro bravura, sia Taylor Kitsch che Vince Vaughn, conosciuti rispettivamente per aver preso parte a film d’azione e a commedie demenziali, stupiscono nel forte contributo che danno alla caratterizzazione dei loro personaggi. Purtroppo, escluse alcune interessanti linee di dialogo, certi personaggi hanno poche occasioni per interagire tra loro, quindi un’accennata intesa tra Velcoro e Woodrugh non viene mai sviluppata del tutto, e per motivi prettamente narrativi, Frank interagisce quasi esclusivamente con Velcoro.
La regia non rimedia alla mancanza, dimostrandosi piuttosto anonima, se non per qualche studiata inquadratura. Tra le poche eccezioni, abbiamo il finale del sesto episodio. La scena in questione viene ricordata con disprezzo dal web come “la scena dell’orgia”, come se un pubblico non abituato ai contenuti espliciti della serie, fosse troppo concentrato a riconoscere le pornostar che ne hanno preso parte per cogliere la perfezione stilistica della sequenza.
Visivamente la serie perde non di poco la suggestione offerta dai paesaggi della Lousiana della prima stagione, eppure il contrasto tra gli eccessi della politica di Vinci e il degrado di una città che cade a pezzi, si presta bene allo scopo di smantellare l’utopica realtà californiana, in un modo che ricorda la narrativa dell’autore James Ellroy, fatta di trame complesse, personaggi dannati, amori profondi e situazioni estreme. Pizzolatto, allontanato dalla Louisiana che lo ha cresciuto, ha la necessità di riprendere lo stile di autori californiani come Ellroy, introducendo spettacolari sparatorie, grandi bevitori dal fegato d’acciaio, amori sentimentalmente profondi e dalla sensualità mai volgare. Sono proprio questi aspetti che complicano la psicologia dei personaggi, non facilitando alcun tipo di immedesimazione ma provocando una forte empatia, favorita anche dalle numerose situazioni in cui i protagonisti si troveranno in estrema difficoltà.
La serie si dimostra quindi un grande successo, e chiarisce le intenzioni che Pizzolatto ha con questa serie antologica, ovvero affrontare il genere poliziesco in tutte le sue sfumature, sfruttando le potenzialità del luogo che fa da sfondo alla storia, e dei personaggi che si muovono al suo interno.
Molte sono state le recensioni negative a questa seconda stagione, spiegabili solo nell’ottica di un pubblico che ha smesso di amare le sorprese e che ha dimenticato tutti quei criteri di giudizio che definivano la bellezza di un prodotto. Viviamo in un mondo in cui la quasi totalità della conoscenza umana è a portata di smartphone, il che alimenta l’ego umano, riduce i dubbi e aumenta quelle certezze che bloccano lo sviluppo del pensiero. Una grossa fetta dell’attuale pubblico non vuole essere stupito, ma vuole sapere che cosa sta per vedere ancora prima di godersene la visione. Al giorno d’oggi l’uscita di un film è preceduta da teaser trailer, trailer che ne svelano la trama, sceneggiature rubate e indiscrezioni dal set. Con la seconda stagione di True Detective, troppi volevano una serie dalle stesse caratteristiche della prima, e altrettanti ne sono stati prevedibilmente delusi.
La società ci influenza in tanti modi, e pochi sono alla portata del nostro occhio. Forse è il dio invisibile citato all’inizio che permette al sottoscritto di giudicare positivamente questa serie TV, oppure lo stesso dio gioca con la mente di chi la critica, ma in ogni caso non possiamo fare altro che sottostare alle stranezze di un mondo che non smette mai di dimostrare il suo predominio sull’uomo.
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