Bentornati! Thank God Is Wednesday è con voi anche questa settimana per recensire alcune tra le migliori testate del mercoledì statunitense. Partiamo immediatamente con un comic book che in questi giorni ha fatto parlare di sé a causa delle polemiche di una mentecatta (non chiamatela femminista, i cadaveri delle Suffragette potrebbero rivoltarsi nelle loro tombe). Per una migliore visione d’insieme linko a voi lettori l’articolo di critica della Professoressa Jill Lepore e la risposta di una delle autrici di A-Force, G. Willow Wilson. Vorrei citare invece la meravigliosa e sintetica replica di Marguerite Bennet, co-sceneggiatrice della testata e allieva di Scott Snyder: “Willow continua a essere l’anima della grazia e dell’equanimità, mentre io continuo a essere l’anima che dice ‘vaffanculo’ spesso e ad alta voce”.
A-Force #1 – Wilson/Bennet/Molina
Who Run Arcadia?
Benvenuti nel Reame di Arcadia, dominio del Battleworld in cui le Supereroine Marvel si sono unite sotto la guida della Baronessa She-Hulk/Jennifer Walters creando l’A-Force, un team il cui compito è quello di proteggere i confini della loro terra. Oltre a intrattenere piacevolmente per 22 pagine, Wilson/Bennett riescono ad utilizzare l’espediente narrativo che muove gli eventi per dare al lettore una maggiore comprensione delle leggi a cui è sottoposto il Battleworld, senza compromettere la sospensione d’incredulità.
Lo script delle due autrici è brillante, divertente ed intenso. Senza ricorrere alla statica divulgazione, Wilson&Bennett evitano noiosi recap sui personaggi, sostituendoli con una breve introduzione e presentando le loro personalità, facendole interagire le une con le altre. Il fondamentale meccanismo “Show, Don’t Tell” viene preso alla lettera dalle due giovani scrittrici, in grado di utilizzare anche una surreale sequenza d’azione per far acquisire al lettore una certa familiarità con le protagoniste. Il risultato di questo stile narrativo sono personaggi che acquisiscono immediatamente tridimensionalità grazie ad atteggiamenti genuinamente naturali.
Le motivazioni della sorellanza guidata da She-Hulk non si fermano semplicemente alla protezione dei confini di Arcadia. Il legame tra le componenti della squadra tutta al femminile è evidente, soprattutto quello tra Ms America e Loki, così come è palese quanto sia fondamentale per loro la sicurezza della comunità del Reame. Ma il seme del dissenso è stato piantato: la legge dell’Imperatore Doom è ferrea e la giustizia dei Thors Corps ha colpito una delle componenti del Team. L’Utopico Reame di Arcadia e il potere della Baronessa She-Hulk vengono messi alla prova e l’apparente perfezione che aleggiava nel dominio del Battleworld si rivela tutt’altro che reale.
L’idilliaca Arcadia è rappresentata alla perfezione da Jorge Molina: il suo stile energico è in grado di catturare il dinamismo delle sequenze d’azione e di rendere ogni singolo personaggio delineabile sin dal primo impatto con esso. Gli inchiostri di Craig Yeung e i colori di Laura Martin rendono ancora più sfavillante il reame governato da She-Hulk ed è proprio quest’ultima che gode di un trattamento di favore ai colori per la sua peculiare carnagione.
A-Force#1 può sembrare l’introduzione standard di una qualunque testata supereroistica di gruppo, ma non è così: l’equilibrio tra azione, caratterizzazione del setting ed interazione tra i personaggi, rende questo primo numero una piccola perla che fa ben sperare per il futuro di questa serie che, molto probabilmente, sopravviverà a Secret Wars.
Ultimate End #1 (of 5) – Bendis/Bagley
Undeserved
La sequenza d’apertura di Ultimate End #1 è particolarmente significativa:
Un teschio bianco su sfondo nero che immediatamente porta la nostra mente al famigerato Frank Castle a.k.a. The Punisher, un personaggio che non ha mai trovato molto spazio nell’Ultimate Universe, nonostante sia stato in parte colpevole per la morte di Peter Parker. Questo teschio bianco su sfondo nero può riportarci alla mente la pagina finale di Secret Wars #1, quella in cui un cranio torreggiava su poche righe lapidarie che riportavano data di nascita e di morte dei due più famosi universi Marvel. Il pensiero di Frank è amaro, e agli occhi del lettore attento e del fanatico Ultimate appare chiaro quale sia il vero significato di quelle parole. Il fucile di precisione è carico.
Frank Castle è rassegnato. Il suo sguardo è lo specchio dell’ineluttabilità dei suoi pensieri: era inevitabile, non poteva finire in un altro modo. Il Punitore avvicina il mirino del fucile di precisione ai suoi occhi, puntando il suo bersaglio, ed il monologo diventa improvvisamente il giusto epitaffio per l’Universo Ultimate, la frase più azzeccata da incidere sulla lapide della Terra che in quindici anni è precipitata rovinosamente e vergognosamente in abissi di mediocrità terrificanti. Nessuno è mai stato abbastanza coraggioso da donare a questo mondo, un tempo splendente e teatro di storie meravigliose, un fine dignitosa.
Frank probabilmente sapeva quel che stava accadendo. Sapeva che si sarebbe arrivati al punto di non ritorno e che la Fine sarebbe stata inevitabilmente uno scempio di proporzioni epiche. Un incomprensibile e confusionario ricettacolo di inutili dialoghi descrittivi e distruzione della continuity, malinconica metafora con protagonista l’autore che ha contribuito alla nascita di questo Universo e che adesso sembra aver volontariamente risucchiato dalla sua creatura il meglio che essa poteva offrire, senza più nessuna possibilità di essere amata.
Protagonista di una fine misera.
Ogni pagina di Ultimate End #1 scritta da Brian Michael Bendis ed illustrata da Mark Bagley sembra esser un costante promemoria per il lettore, un memorandum in grado di provocare uno sgradevole senso di nostalgia, un po’ come quando di una meravigliosa serata alcolica si riesce a ricordare soltanto il sapore del proprio vomito. E sono proprio queste le sensazioni disgustosamente viscerali che provoca Ultimate End, una miniserie che rappresenta la fine di un’era e la chiusura di un’etichetta editoriale che ha rivoluzionato il mondo del fumetto. Al termine della lettura l’unica considerazione positiva possibile è “Per fortuna sono solo cinque numeri del cazzo…”
Mi auguro finisca presto, il più presto possibile.
Planet Hulk #1 – Humphries/Pak/Laming/Miyagawa
Steve Rogers, The Strongest One There Is
Planet Hulk è un meraviglioso Art Attack. Prendete un Captain America selvaggio e gladiatoriale. Fatto? Bene, adesso dategli come cavalcatura un Tyrannosaurus Rex rosso chiamato Devil ed inseritelo in un intrigo politico con protagonisti God Emperor Doom e lo Sceriffo Stephen Strange. Fatto? Okay, adesso mettete il Captain America a cavallo del suo T-Rex e gettatelo nelle Greenland, il Reame del Battleworld popolato interamente da Hulk, per una missione omicida e di salvataggio. Fatto? Bravissimi ragazzi, avete appena costruito il vostro Planet Hulk #1!
La narrazione di Sam Humphries è frenetica: si muove rapidamente dalla gremita arena del Killiseum alla desolazione delle Greenland, passando per il trono su cui siede l’Imperatore Dr. Doom, nel giro di pochissime pagine ma senza risultare precipitoso. Nonostante il costante cambio di setting, non si perde mai quell’atmosfera arida e selvaggia che permea tutta la issue ed è notevole il coinvolgente focus sull’obiettivo di Steve Rogers, un uomo determinato e disposto a tutto per ritrovare Bucky Barnes, persino un patto con l’inquietante Dio del Battleworld.
Non ci sono punti morti, non c’è spazio sprecato. Planet Hulk #1 è una soluzione ad alta concentrazione di soluto, in cui il solvente è stato ridotto al minimo. Sam Humphries sfrutta al massimo le pagine a disposizione senza mai diluire uno storytelling incredibilmente denso, in grado di utilizzare ogni singola vignetta per raccontare una porzione importantissima della sua storia. Il tono selvaggio ed avventuroso della issue è corroborato dalle illustrazioni di Marc Laming: il taglio ruvido, squadrato e fotorealistico contribuisce ad accentuare un’atmosfera degna della miglior serie post-apocalittica, e la rappresentazione del Tyrannosaurus Devil è terrificante e meravigliosa.
In coda alla issue è presente una backstory sul Reame delle Greenland scritta da Greg Pak, autore dell’originale Planet Hulk, e disegnata da Takeshi Miyagawa. Intrigante grazie alle matite filo-orientali dell’artista, Phoenix Burning è una discreta origin-story che parte con il piede giusto coinvolgendo Bruce Banner e Amadeus Cho.
Planet Hulk è una storia semplice, dalle pretese oneste che però entusiasma grazie al perfetto storytelling targato Humphries&Laming, impregnato d’azione, avventura, frenesia e pathos. Il quadro generale del Battleworld si arricchisce di personaggi affascinanti e mostra, proprio come in A-Force, il ruolo divino del Dr. Doom in questo strano mondo.
Master Of Kung Fu #1 – Blackman/Talajic
Drunken Master!
Per un giocatore di Dungeons&Dragons è possibile riconoscere nell’apertura di Master Of Kung Fu un Classe Di Prestigio del Monaco, il Maestro Dello Stile Dell’Ubriaco, ovvero un combattente a mani nude in grado di ottenere straordinari talenti dopo aver consumato ingenti quantità d’alcool. Haden Blackman e Dalibor Talajic non traggono ispirazione dal mondo del GDR, ma il mood che si respira in Master Of Kung Fu è affine a quello che si respirerebbe in un gruppo di giocatori in cui è presente un Maestro Dello Stile Dell’Ubriaco, o per render le cose più semplici e comprensibili anche ai non giocatori di ruolo, l’atmosfera è quella di un bel film a-là Jackie Chan.
Una lettura leggera e piacevole, sullo stile delle recenti testate Marvel quali Star-Lord e Hawkeye di Matt Fraction, in cui l’ironica e scanzonata caratterizzazione del protagonista, in questo caso Shang-Chi, definisce l’impronta della serie a prescindere dagli eventi che lo circondano. Il breve recap iniziale funge da introduzione nel dominio di K’un-Lun: ogni tredici anni, le tredici case si affrontano per decidere chi diverrà Barone del Reame, ruolo attualmente ricoperto dal Maestro dei Dieci Anelli Zheng-Zhu, padre di Shang-Chi. Seppur non particolarmente originale nelle basi, Master Of Kung Fu #1 intrattiene e diverte senza mai annoiare, e gli adattamenti di alcuni personaggi famosi attuati da Blackman risultano affascinanti.
L’artwork di Talajic è semplice e pulito, capace di rendere la lettura ancora più scorrevole. Apprezzabile il suo utilizzo delle splash-page, in grado di arricchire la narrazione spedita di Blackman ricordando vagamente una costruzione a-là Del Mundo/Williams III. Master Of Kung Fu è un ottimo diversivo che si discosta dalla serietà che permea tutto Secret Wars, dando al lettore la possibilità di respirare un attimo e godersi al meglio ogni singolo pezzo del puzzle.
Spider-Verse #1 – Costa/Araujo
Better Than Slott
Mike Costa mutua il nome del recente mega-evento Ragnesco targato Dan Slott, eliminandone superficialità ed inconsistenza per concentrarsi su un piccolo gruppo di Spider-Men, cancellando le disordinate e ridicole proporzioni epiche del crossover terminato qualche mese fa. Spider-Gwen, Spider-UK, Anya Corazon/Spider-Girl e Spider-Man India, protagonisti di Spider-Verse #1, ricevono un ottimo trattamento di caratterizzazione: personaggi ben distinti, voci uniche che non si sovrappongono e non cadono nella ripetitività e nella similitudine. La narrazione è assimilabile a quella di un racconto investigativo: i quattro Ragni sono confusi, non riescono a ricordare precisamente il loro passato, e leggendo non siamo nemmeno sicuri di quanto queste siano le versione reali dei personaggi che conosciamo. I primi a mettersi in moto per scoprire cosa si cela dietro quest’amnesia frammentaria sono Spider-Gwen e Spider-Man India.
Sebbene questa prima issue non imbocchi una strada ben precisa per la mini-serie, il senso di smarrimento che la permea è coerente con quello dei personaggi ed è possibile considerarlo un valore aggiunto. André Araujo dipinge Spider-Verse #1 con un’impronta “indie” che potremmo paragonare a quella di Robbi Rodriguez in Spider-Gwen: fluido, stilizzato e dinamico, ma dalle espressioni facciali spesso innaturali. In linea di massima l’artwork è comunque apprezzabile. Spider-Verse#1 è una seconda occasione per tutti coloro che hanno detestato il mash-up multiversale di Dan Slott e che in realtà preferiscono l’intimità di un piccolo gruppo di personaggi ben caratterizzati.
Wytches #6 – Snyder/Jock
Special
Siamo al termine del primo story-arc e non sapremo quando Scott Snyder e Jock torneranno a narrarci delle terrificanti streghe di Wytches, un incredibile Horror disturbante che non necessita del Gore per shockare il lettore. Charlie, Lucy e Sailor Rook si sono trasferiti in una nuova città dopo un tragico incidente stradale che ha coinvolto le donne della famiglia, costringendo Lucy a passare il resto della sua vita su una sedia a rotelle. Nel corso delle sei issue abbiamo imparato a conoscere la famiglia Rook: il conflittuale ed affettuoso rapporto Padre-Figlia, il bullismo subito da Sailor e gli spaventosi esseri che perseguitano la povera ragazza sono solo alcuni tra gli elementi utilizzati da Scott Snyder per creare la splendida atmosfera che miscela una storia famigliare, il macabro ed il sovrannaturale.
Wytches #6 è un build-up adrenalinico che prepara ad un twist finale rivelatorio che ha dell’incredibile: la quadratura del cerchio attuata da Snyder è in grado sia di chiudere senza plot-hole la storia della famiglia Rook che di creare spunti per un futuro secondo story-arc. Soddisfacente ed impressionante, la conclusione di Wytches #6 è anche un tassello in più nell’evoluzione dei protagonisti, primo fra tutti Charlie Rook, contemporaneamente il miglior/peggior genitore: un personaggio complesso, in cerca di redenzione ed incredibilmente umano. La forza mostrata in questa issue è sinonimo della sua crescita: da uomo debole ed incapace di gestire se stesso e la sua famiglia ad essere umano in grado di prendere decisioni difficili in situazioni estreme.
Lo storytelling angosciante di Wytches è frutto dell’immenso lavoro combinato di Snyder, Jock e del colorista Matt Hollingsworth: gli artisti raggiungono il picco delle loro straordinarie carriere, risucchiando il lettore nei loro claustrofobici pannelli contenenti immagini disturbanti, in grado di utilizzare l’oscurità alla perfezione e di macchiarla con gli schizzi di colore volutamente confusionari di Hollingsworth.
Wytches #6 è perfetto, esattamente come l’intera serie. L’artwork sbalorditivo ed il coinvolgente ed interessante sviluppo dei personaggi sono solo un paio delle caratteristiche che rendono meraviglioso questo primo story-arc. Scott Snyder ci dà nuovamente prova del suo talento come storyteller d’orrore e possiamo solo incrociare le dita, sperando che torni al più presto su questa serie per deliziarci ulteriormente.
Siamo al termine di Thank God Is Wednesday #15 e vorrei concludere mostrandovi un assaggio del prossimo articolo…
Hasta la vista!
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