Nell’era della pornografia dei sentimenti qualsiasi tipo di romanticismo frivolo e alla portata di tutti è commercialmente valido.
Gli esempi sono molti: negli Stati Uniti Twilight e 50 Sfumature di Grigio, nel Bel Paese Moccia e Muccino.
Talvolta può accadere però che nel marasma generale qualcosa di buono esca fuori, come in questo caso.
Ora, Warm Bodies non è un un film con un ritrovato senso artistico, sia ben chiaro. Più che altro nella sua classificazione a pellicola di genere sentimentalefantastico ne esce a testa alta.
O con dignità, decidete voi.
Jonathan Levine confeziona una pellicola che sorprende nel riuscire a mantenere una personalità senza scadere nell’eccessivo e melenso mondo dei blockbuster per teen-agers. Il talento del regista, già provato in 5050, è evidenziato ancora una volta da una regia convenzionale ma bella per una storia, tratta dall’omonimo libro di Isaac Marion, che funziona nella sua ingenuità.
L’interpretazione dei protagonisti non aiuta a mantenere molto alto il nome del film ma ci pensa la storia.
Se in Twilight la versione del vampiro vegetariano e brillante è uno snaturamento servito da una sceneggiatura piatta e monotona, in Warm Bodies assistiamo ad una bella reinterpretazione, a volte hipster, di un classico dell’horror.
L’espediente che permette di mantenere l’umanità del personaggio in vita è rappresentato dal mangiare cervelli umani, attraverso i quali lo zombie ne assorbe i ricordi.
Lo status di non-morto quindi in accordo con la filosofia del racconto è dettato da una condizione di assopimento della sensibilità umana; ed è nell’atto del mangiare che resta vigile seppur dormiente il suo intelletto.
Un passo reso molto bene e, non senza ingenuità, costruito con l’utilizzo di bei flashback e coerente nel finale del film.
Dunque se le premesse, dettate soprattutto dall’ammiccante trailer, dalla scelta dei protagonisti e dallo zampino dei produttori di Twilight, avevano condannato il prodotto ancor prima che uscisse, mi sento di spezzare una lancia a favore.
Sottolineando e risottolineando il motto del “mai dire mai al marketing americano” sembrerebbe tra l’altro uno dei pochi prodotti per il pubblico generalista a non necessitare di sequel e prequel.
Ne dubito ma ci spero.
marcodemitri®
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