Ryan Murphy è un tagliente e cinico personaggio del panorama televisivio statunitense. La sua è una sadica abilità nel dimostrare quanto problematiche e tossiche siano le relazioni umane, salvo poi costruire un finale apparentemente lieto. Come da copione, insomma.
Per chi non lo conoscesse, è l’ideatore di NipTuck. Volete altro? Bene, ci sono Glee, la trasposizione cinematografica del romanzo Correndo con le Forbici in Mano, The New Normal e infine American Horror Story. Che è anche il prodotto di cui vorrei parlare. American Horror Story è una serie televisiva del 2011 – fino adesso arrivata alla seconda stagione – che non ha mai brillato per originalità e credo che questo sia un dato risaputo. La sua grande forza è stata quella di saper miscelare con astuzia e un palese ammiccamento al pubblico mainstream, storie già viste in precedenti pellicole thriller/horror; servendosi di una sceneggiatura accattivante, una regia originale e un bel cast.
Tutto questo riguarda solo la prima parte, che a conti fatti è la migliore. Dunque perchè seguirla? Oltre i già citati pregi, come la riproposizione di tematiche appartenenti al folklore e alla cultura dell’orrore e una delle più belle sigle mai realizzate, c’è da aggiungere che ogni stagione ha una sua storia: nel senso che terminata la prima, la seconda, ad esempio, non sarà incentrata sullo stesso tema ma avrà solo gli stessi attori in ruoli differenti. In questo modo si evitano i fastidiosissimi cliffhanger e si può tirare un sospiro di sollievo se la storia precedente non è piaciuta.
Prima Stagione – The Murder House
Il vicinato è pittoresco ed emergono subito personaggi come Constance (Jessica Lange) e la figlia, Tate (Evan Peters) e l’ambigua cameriera Moira (Frances Conroy). Ma gli Harmon scopriranno ben presto che c’è ben altro oltre il ridente e apparentemente normale quartiere. Strani eventi iniziano a far vacillare quello che sarebbe dovuto essere solo un modo per recuperare la fiducia persa. La bellezza dello script è dovuta soprattutto alla riuscita di ben fatti colpi di scena e personaggi bizzarri, che non abbassano il livello qualitativo, anzi, lo innalzano. Appare subito evidente che quanto visto nella prima puntata è solo l’inizio di una storia in cui, attraverso parallelismi passati, si alterneranno strani eventi. Impressionante è l’utilizzo di Rubber Man, una raccapricciante entità con indosso una tuta masochista la cui vera identità, avvolta nel mistero, diventa il vero tormentone dell’intero arco narrativo. Da segnalare poi il perfetto modo di riproporre, senza incappare in fastidiosi plot hole, di un intreccio movimentato tra passato e presente. Se nella prima i riferimenti erano ad un contesto attinente maggiormente alla contemporaneità in questa seconda stagione la storia si avvia negli anni ’60.
Seconda Stagione – Asylum
Ora mi risulta difficile recensire questa seconda parte. Sia perchè il mio è un giudizio annebbiato dall’hype lasciatomi intendere dai vari spot, sia perchè la storia in se è così mal riuscita che non è facile andare oltre “spaventosa”. Che non è un complimento, sia chiaro. Ma procediamo con ordine.
La serie, come ho già detto prima, è un contenitore di omaggi al mondo dell’horror. E funziona abbastanza bene, nella prima stagione, grazie ad una sceneggiatura ben strutturata. C’è da dire che noi viviamo in un periodo che può ancora attingere all’immaginario collettivo creato da Lost, Twin Peaks e ancor prima da Dallas. Fautori della innovazione di un romanzo corale in cui si possono aggiungere personaggi attraverso una caratterizzazione non evolutiva bensì anacronistica. Cosa voglio dire: attraverso l’utilizzo di un espediente narrativo come il flashback si può costruire un personaggio senza togliere tempo alla storia principale. In questo modo lo spettatore può immaginare la successiva azione e restare stregato e avvinto dal serial. Nozioni base per capire il meccanismo della maggior parte dei prodotti televisivi odierni.
Ma tutto questo ha un limite se non usato correttamente. Infatti uno dei rischi è quello di non dilazionare bene il tempo della storia con quello dei protagonisti, incorrendo così in una ridicola e patetica velocizzazione della maturazione dei personaggi o peggio: eliminandola rendendoli così piatti.
Al di là delle sottotrame insulse, dei momenti gratuiti di puro trash e di alcuni attori pessimi, il problema principale è quanto detto prima: un’assurda accelerazione narrativa che porta ad un ultimo giro di boa con un finale brutto e inutilmente shoccante. Se nella prima stagione il perno principale era la ricostruzione del nucleo famigliare, con impressioni suggestive e battute riflessive, qui, sembra lo studio della malattia mentale a privilegiare. Ma se l’intento è quello di far luce sulle torture corporali, tra cui l’elettroshock e le frustate, e denunciare le brutalità e gli esperimenti che subirono molti pazienti, il prodotto non riesce perchè si riduce ad un romanzato e surreale quadretto d’altri tempi, lontano dal pubblico più attento e vicino a quello generalista. A completare una regia che si perde troppo spesso nella sua ricerca estetica, tanto da risultare barocca e provocando il più delle volte, senza esagerare, nausea. Da segnalare in positivo restano una egregia fotografia e un cast con gli ottimi Jessica Lange, Zachary Quinto e la non male Lily Rabe.
Infine c’è solo il rimpianto per un occasione mancata di poter dimostrare, con meno idiozie, una trama più ricercata e meno insulsa e, pur nutrendo qualche dubbio spero comunque in una terza stagione che abbia di apprezzabile non solo la sigla.
marcodemitri®
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