Ne ho visti sequel e reboot che voi umani non potreste immaginarvi.
Ho visto un Indiana Jones cassaintegrato chiudersi in un frigorifero per salvarsi da un’atomica e, poi, l’ho visto incontrare gli alieni.
Ho visto Robocop spogliato della violenza e della critica sociale di Verhoeven.
Ho visto i Ghostbusters privati del pene, del senso dell’umorismo e della dignità.
Ho visto Terminator incasinare la timeline come un bambino di un anno che prova a completare un puzzle da mille pezzi.
A causa loro, le mie retine sono andate in fiamme a largo dei bastioni di Orione.
E tutti questi momenti si sono persi nei cinema come lacrime in una pioggia di pop corn.
Questo per dire che non è facile prendere un’icona cinematografica il cui culto si è sedimentato e consolidato in oltre 30 anni e riportarla nelle sale. Negli esempi di cui sopra, si è puntato più sul lato commerciale che su quello sostanziale ed è andata malissimo. Chiaro quindi che l’idea di assistere ad un sequel di un mostro sacro come Blade Runner destasse paura e scetticismo.
La scelta degli uomini a cui delegare questo compito era di cruciale importanza e Ridley Scott – salito a bordo del progetto nel 2015 per dare ad uno dei suoi figli più celebri il sequel che meritava – ha scelto bene la formazione.
Lo script è stato affidato ad Hampton Fancher, già sceneggiatore del film del 1982, affiancato da quello che, nell’ultimo anno, è diventato una gallina dalle uova d’oro, quel Michael Green che ha scritto Logan, Alien Covenant ed ha fatto da co-showrunner per American Gods. Alla regia Denis Villeneuve uno che un paio d’anni fa si era già fatto parecchio notare con film come Prisoners, Enemy e, soprattutto, Sicario. La fiducia nel fatto che fosse lui la scelta giusta, l’abbiamo avuta alcuni mesi fa con Arrival, indiscutibilmente uno tra i film di fantascienza più convincenti ed originali degli ultimi anni. Uno di quelli destinato, col tempo, ad essere considerato un cult.
I film di Villeneuve hanno tempi narrativi rarefatti, un aspetto questo che si sposa perfettamente con Blade Runner che era una science fiction decisamente inusuale per l’epoca: il film di Scott era meravigliosamente lento, e metteva (quasi) totalmente da parte azione ed avventura, componenti generalmente preponderanti in un certo tipo di fantascienza, per affrontare da un punto di vista romantico ed esistenzialista il tema della coscienza delle I.A. (ispirandosi, come tutti ben saprete, ad un romanzo di Dick). Un ritmo flemmatico che si ammantava di atmosfere da noir losangelino alla Ellroy e che trovava rappresentazione anche nella sostanziale indolenza di Deckard.
E questo apparente torpore nel gestire i tempi narrativi di un film è tipico proprio di Villeneuve. A ciò si aggiunge la sua passione per i campi larghi ed i lentissimi movimenti di camera di una precisione certosina (un po’ alla Kubrick) che gli ha consentito di dare una nuova interpretazione delle iconiche atmosfere del primo film senza scimmiottarle, ma facendole sue. E qui ovviamente, il merito va diviso con il direttore della fotografia, Roger Deakins, che aveva già dimostrato grande sintonia con Villeneuve in Sicario.
…e guardatevelo Sicario
Atmosfere in cui il sonoro, naturalmente, riveste un ruolo parecchio importante. Le musiche di Vangelis che avevano accompagnato il film di Scott, sono sostituite dalla soundtrack dell’onnipresente Hans Zimmer che è riuscito ad avere una discreta assonanza con il lavoro del compositore greco inserendo in alcuni frangenti dei botti fragorosi che meritano, assolutamente, una sala cinematogafica.
Insomma, da un punto di vista tecnico Blade Runner 2049 vi manderà in una sorta di trance audiovisiva spedendovi direttamente sotto la pioggia acida della distopica L.A. creata da Villeneuve.
Va precisato che BR2049 ha un’apprezzabile continuità con il primo film non solo nella forma, ma anche nella sostanza. Ambientato 30 anni dopo Blade Runner, 2049 ne riprende alcuni topoi – gli occhi, l’ossessione dei replicanti per le foto, l’importanza dei ricordi, quell’aria densa ed opprimente – ma sviluppa una trama tutto sommato originale, avvicinandosi da un punto di vista tematico ad un’altra celebre sci-fi che verteva sul tema della coscienza delle I.A., mi riferisco alla serie TV Battlestar Galactica. Caso vuole che il comandante del Galactica, Edward James Olmos, già presente in Blade Runner, torni anche qui per un cameo nel ruolo di Gaff, il blade runner in fissa con gli origami.
Impossibile inoltre non sottolineare come uno dei subplot del film sia mutuato da quel gioiello di Her di Spike Jonze.
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Come nel film di Scott la spina dorsale era Deckard, così nel film di Villeneuve lo è l’agente K intepretato da Ryan Gosling, uno che, nonostante quella perenne espressione monocorde un po’ intontita, riesce sempre a dar vita a personaggi estremanente credibili. Ci riesce anche stavolta e lo status quo del malinconico K viene più volte sovvertito agli occhi dello spettatore rendendolo un protagonista molto ben riuscito.
A lui si unisce l’inaffondabile Harrison Ford ed un cast replicante niente male con Mackenzie Davies e Dave Bautista che, nonostante ruoli marginali, sono molto ben calati nelle rispettive parti. Non altrettanto affascinante, forse anche per il poco spazio on screen, è Wallace, l’onnipotente industriale che nel 2049 ha soppiantato Eldon Tyrrell, interpretato da un Jared Leto con tanto di cataratta. Villeneuve avrebbe voluto affidare il ruolo di Wallace a David Bowie, ma purtroppo la sorte ha voluto che il duca bianco non fosse più tra noi per prendere parte non solo a BR 20149 ma anche alla nuova serie di Twin Peaks in cui Lynch lo ha sostituito con una teiera fumante…
– volendo è operabile, eh –
Nel complesso Blade Runner 2049 è un gran bel gol perché realizzare un sequel soddisfacente di un oggetto di venerazione cinefila come il film di Ridley Scott appariva come un’impresa pressoché impossibile, sia perché ce lo dice la storia recente del cinema sia perché, trattandosi di un’opera di tale complessità ed unicità, non era affatto facile seguirne le orme. Detto ciò, e pur essendo incredibilmente soddisfatto di ciò che ho visto, mi distacco da coloro i quali gridano al capolavoro: il film di Villeneuve, un capolavoro di genere non può esserlo perché è un derivato, per quanto molto ben riuscito, di una pietra miliare che, 30 anni fa, portò la fantascienza in luoghi ancora inesplorati, piantando il seme da cui si generò la fiorente estetica cyberpunk e non solo. Insomma chiedere a Villeneuve di alzare ulteriormente l’asticella della science fiction con un sequel dal nome così impegnativo era anche troppo. Ha fatto il suo, lo ha fatto molto bene ma non ha detto nulla di nuovo.
Il regista canadese – che è indiscutibilmente uno tra i più straordinari esteti della sua categoria – potrebbe riuscire in questa impresa col suo prossimo lavoro: il remake di Dune. Magari lì, con l’adattamento del romanzo di Herbert, potrà dare nuova profondità alla space opera, un genere oggi irrimediabilmente ibridato col pop corn movie, come testimoniano lo Star Wars di Abrams e lo Star Trek… sempre di Abrams. Lungi da me demonizzare i due franchise (che apprezzo), ma un’alternativa sarebbe cosa molto gradita.
Insomma grazie Denis, hai fatto una cosa bella e ti si vuole un gran bene.
Io vi saluto e vi aspetto su Facebook:
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