Gente, io la prendo proprio alla larga eh.
L’identità di un’opera è una faccenda complessa. Per costruirla è necessario partire dal principio, dall’Idea. Ma l’Idea, per quanto possa essere a prova di proiettile, è soltanto un’idea. Da sola vale poco. L’idea non rappresenta le fondamenta dell’identità di un’opera, non ne è nemmeno il progetto architettonico. La migliore delle idee sarà sempre peggio della fanfiction più brutta mai pubblicata su EFP. Perché nel campo della comunicazione artistica quel che conta è proprio comunicare. L’Idea è a prova di bomba perché concretamente non esiste.
Non esistono idee originali. Anche quando ci sembrano tali, nel mondo della creatività vige la stessa legge che Lavoiser ha formulato per le reazioni chimiche: Nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Fondamentale è l’ultima parola di questa frase meravigliosa: Trasforma. Dare forma. L’idea non ha una forma, è solo un agglomerato di reagenti che attende l’atto fisico-chimico della reazione per acquisirne una. Viene lentamente modellata attraverso un processo creativo consapevole. E se richiede tempo e fatica, probabilmente lo si sta facendo bene. E se lo si sta facendo bene, i reagenti della reazione non saranno più così importanti.
Perché è la forma che crea l’Identità. Un’opera si distingue e acquisisce un’identità in base a come i suoi reagenti sono stati combinati. Quali sono i reagenti è ininfluente. Non è importante “cosa” è stato utilizzato per la reazione ma è importante “come” essa sia stata condotta, dall’inizio alla fine. In questo modo l’opera dovrebbe acquire un’identità definita, una forma più o meno precisa.
Ma la forma, nel peggiore dei casi, può somigliare in maniera inquietante a qualcosa di già esistente. A quel punto l’opera assume un carattere derivativo che solitamente la declassa al rango di “imitazione priva di dignità”. La reazione non è stata adeguatamente controllata. La disciplina nel processo creativo permette di modellare la forma in maniera tale da non far trasparire nessuno spigolo derivativo. Nel migliore dei casi, l’identità di un’opera può essere unica e ben riconoscibile anche quando è possibile invertire la reazione e scoprirne i reagenti. Oppure, in casi ancora più fortunati, quando da lontano sembra avere una forma diversa da quella che ha da vicino.
È questo quello che accade nel Dylan Dog 370 scritto da Gabriella Contu e disegnato da Giampiero Casertano. La natura dell’albo sembra riconoscibile immediatamente dal titolo, dalla copertina e dalle sue prime pagine. Un aereo che colpisce il monumento più rappresentativo di Londra, il disperato terrore condensato in una singola vignetta e poi, improvvisamente, delle mani che reggono un Joystick tenuto in mano da un ragazzino di nome Ahmed. Il tema non è il terrorismo ma ciò che gli gravita attorno, quella pandemia di terrore che ha infettato tutti.
Dopo le primissime pagine parte un racconto che pesca a piene mani da ogni angolo del reale, dalla concretezza che l’attuale paura comune fornisce come materiale narrativo e lo rielabora in chiave grottesca e surreale.
Una commedia degli equivoci scritta da una mano che utilizza la logica come un chirurgo userebbe un bisturi. Una casualità paradossale talmente credibile da non poter esser altro che frutto di un lavoro meticoloso. Il Terrore è un’opera di camuffamento riuscita alla perfezione: qual è il miglior modo per narrare della pericolosa psicosi collettiva del presente, se non quello di rappresentarla come una tragicomica caccia all’uomo?
Caccia osservata da più angolazioni, per rappresentare le varie facce del panico.
Il docente di Ahmed ricorda un verso di Salmo: “Faccio uguale al telegiornale, Psicoterrorismo”. La radio annuncia un’allerta per il concorso scientifico multiculturale, lo stesso a cui Ahmed è iscritto. L’ascolto è passivo, immediatamente liquidato da una battuta a tema di infima caratura. Le basse difese hanno permesso al virus del terrore trasmesso dal radiogiornale di attecchire senza difficoltà. Appena incontrato il ragazzo con in braccio la sua invenzione, la patologia si manifesta ed il terrore puro cancella ogni singola traccia di razionalità.
I motociclisti sono apparentemente riconducibili a determinati gruppi politici. L’ironia della Contu però supera la satira politica per concentrarsi sulla necessità di dare alla paura una direzione per poterla trasformare in odio. Lo straniero è il nuovo freak, il dito e le torce vanno puntate contro di lui. Poco importa quanto becere siano le presunte argomentazioni, il seguito fragile e servile di qualsiasi forma d’odio è sempre numeroso. Perché il terrore e la fragilità sono legati a filo doppio e si autoalimentano in un circolo vizioso potenzialmente infinito.
“Non sarà un semaforo a fermare la Democrazia!” è la frase emblematica di un’altra folle ottusità dettata dal terrore, quella di una violenza brutale apparentemente lecita in nome della difesa di un ideale altisonante. Tutto crolla nel momento in cui il vero ideale si rivela essere Instagram in una delle vignette migliori dell’albo.
Queste sono solo alcune delle facce più riconoscibili della Paura, tutte parte di una massa disperata che non è più in grado di osservare la realtà con lucidità. Ahmed, nella sua ingenuità, porta prepotentemente a galla tutto questo in maniera totalmente involontaria. Ogni volto della paura paranoide mostrato dalla Contu e da Casertano si concretizza con la creazione di un terreno fertile per la sopravvivenza a lungo termine del terrorismo reale.
La chiusura improvvisa del volume è un’ulteriore conferma della natura surreale dell’albo. La storia si riduce ad un semplice pretesto per mettere le carte in tavola con estrema precisione. Ogni linea di dialogo è calibrata al millimetro e sono totalmente assenti pipponi moralizzatori perché è evidente che qui non si cerca di insegnare niente a nessuno. La grandezza dell’albo sta proprio in questo: per quanto pesante sia la tematica, è come se la narrazione fosse talmente consapevole da sapere di non doversi prendere troppo sul serio. Come se si ricordasse di essere effettivamente “solo” una storia.
Quando la realtà viene filtrata, rimescolata e raccontata attraverso menzogne come Il Terrore, l’opera d’arte narrativa raggiunge la sua identità migliore. Una forma perfetta.
No, non sono impazzito. La mia religione m’impone di inserire almeno una gnocca per articolo.
Si parlava di forme perfette.