La penna multiforme di Robert Kirkman ha il pregio non solo di sapersi adeguare a generi differenti, ma anche quello di toccare, all’interno dello stesso genere, diversi aspetti dello stesso o diversi sottogeneri. Il caso più lampante di questa sua versatilità risiede in Outcast, il cui quarto volume oscilla tra il classico horror “d’atmosfera” e il più crudo e cruento splatter, passando per altri sottogeneri horror.
Questa volta, per la recensione, seguirò sì l’ordine del volume (evitando gli spoiler) ma andando anche ad individuare e soffermarmi sui “tipi” di horror che sono racchiusi nelle pagine del Volume 4 di Outcast. La prima parte del volume si apre con il rapimento che chiudeva il precedente. Qui abbiamo una narrazione quasi da “thriller psicologico” nel quale prima dominano le tinte spiccatamente horror del dialogo tra Kyle e Sidney: chi o cosa è Sidney? Perché Kyle è così importante per lui e per “quelli come lui”? Domande a cui, in parte, troviamo una risposta in queste pagine e che ci tengono col fiato sospeso fino al finale, dove avviene il colpo da maestro di Kirkman con un rallentamento dell’azione più simile ad una serie TV che ad un fumetto. Scopriamo infatti che il reverendo Anderson è sulle tracce di Kyle e ci viene mostrato il lento incedere a tentoni del reverendo. L’intuizione, però, in un fumetto come Outcast, non porta mai niente di buono.
La seconda parte del volume è all’insegna dell’azione marcata e ci addentriamo nel classico inseguimento dei film horror: c’è qualcuno che scappa, qualcuno che insegue e qualcun altro che insegue gli inseguitori. Ma anche questa volta Kirkman ci mette lo zampino, permeando la narrazione di tanti altri aspetti come il rapporto con la natura, la desolazione dei luoghi in cui avvengono questo genere di vicende (c’è ovviamente del didascalismo nell’utilizzare una vicenda particolare per raccontare qualcosa di generale, seppur utilizzando diversi strumenti e generi linguistico-letterari) e lo scontro con un nemico misterioso, che cela gelosamente i suoi segreti. Questa parte del volume, come ogni film di sopravvivenza in luoghi ostili deve fare, si concentra anche sul rapporto tra Kyle e il reverendo Anderson. Il primo è sempre più convinto dell’ineluttabilità della sua missione e del carico di responsabilità ad essa collegato; il reverendo diventa sempre meno uomo di Chiesa, homo cogitans, per farsi uomo d’azione puro e duro. Il percorso dei due protagonisti è anche e soprattutto spirituale.
Arriviamo quindi alla parte finale del volume, dove Kirkman si diverte a iniettare massicce dosi di slasher nelle sue pagine. Partendo da una situazione riparata e ormai consolidata, la narrazione procede a piccoli passi verso un finale che, ne sono sicuro, lascerà tutti sconvolti. Il bagno di sangue che vi attende nelle ultime pagine è qualcosa di inaspettato ma anche di insolito per Outcast. Kirkman, per chiudere due anni di narrazione compassata ma serratissima nei contenuti, sembra lanciare un messaggio ai lettori: finora abbiamo scherzato, da questo momento si fa sul serio. Kirkman porta un messaggio in questo volume, un messaggio forte, che nelle prime pagine viene sussurrato, lo si legge in modo implicito, tra le righe dei dialoghi e tra gli spazi delle vignette. Man mano che si va avanti col volume e con la lettura, il rumore di fondo si fa più insistente e prende corpo, fino a diventare un grido quando ormai è troppo tardi per metterlo a tacere. Niente è come sembra, tutti possiamo essere il Bene o il Male. La narrazione di Kirkman è solita rompere molti canoni stilistici, ma in Outcast raggiunge il massimo per la varietà di contenuti toccati. Scevro da ogni tipo di azione forzata, in grado di raggiungere il climax nel giusto momento, l’autore ha delle tempistiche stupefacenti, alternando staticità a immediatezza nell’arco di poche pagine o, addirittura, vignette.
In questo excursus del Volume 4, bisogna però rendere giustizia anche al fedele collaboratore di Kirkman. Paul Azaceta è sempre di più l’uomo giusto al posto giusto, in grado di giocare con luci ed ombre in modo incredibile, di seguire lo storytelling di Kirkman con assoluta meticolosità, come un abile regista che lavora al servizio della sceneggiatura, ricevendo in cambio il giusto supporto nel giungere alla scena che solo lui può “riprendere” ovvero rappresentare sulla tavola. Il connubio tra scrittore e disegnatore non è mai stato così perfetto come quello instauratosi tra Kirkman e Azaceta: i due si inseguono sulla pagina, lasciandosi vicendevolmente ampi spazi d’azione, alternandosi per raggiungere ora uno scopo ora un altro, lavorando sempre l’uno al servizio dell’altro in modo alternato. Tutto ciò che ho scritto non è un’opera di convincimento all’acquisto di Outcast ma se non avete ancora acquistato i volumi (sempre reperibili sul sito saldaPress o in fumetteria) oppure non seguite i brossuratini da due capitoli (idem come sopra, ma io vi consiglio i volumi per poter godere ancora di più nella lettura), allora sono fatti vostri, non sapete cosa vi state perdendo. Outcast è il prodotto più puro del fumetto seriale non supereroistico degli anni ’10, dove la decompressione narrativa raggiunge la vetta più alta ma, allo stesso tempo, si fonde con un modo di raccontare estremamente compatto e realistico anche in situazioni che di realistico hanno ben poco. Con questa recensione è tutto, ci rileggiamo alla prossima.
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