Nei giorni scorsi all’Antro dell’Orco Games Academy di Messina, abbiamo incontrato Giulio Rincione, talento emergente del panorama del fumetto italiano ed autore di Paranioæ, graphic novel recentemente pubblicata da Shockdom. Ecco la nostra chiacchierata con lui.
Giulio, iniziamo naturalmente dal tuo ultimo lavoro, Paranioæ. Cosa puoi dirci della genesi del tuo libro?
A questo punto, io, Lucio Passalacqua e Prenzy ci siamo resi conto di non essere in grado di supportare economicamente il ciclo di pubblicazioni che avevamo previsto per Pee Show: “Paranoie”, “666” e “Benvenuti a Lalaland”. Avevamo bisogno di circa 3000 euro ed abbiamo iniziato a ragionare su soluzioni alternative. Abbiamo, ad esempio, pensato di fare qualcosa alla Ratigher, come il primaomai, ma il crowdfunding non poteva funzionare coi numeri che muovevamo noi.
A quel punto mi sono ricordato di una proposta di Lucio Staiano che, qualche tempo prima, ci aveva chiesto se fossimo alla ricerca di un editore e noi, in prima battuta, avevamo rifiutato. Allora lo abbiamo contattato e gli abbiamo proposto il nostro pacchetto di fumetti per sentire cosa aveva da proporci, non tanto sotto l’aspetto economico, quanto sotto quello della libertà creativa.
Quindi nessun limite di pagina, formato, ecc?
Esatto. E devo dire che i volumi sono usciti anche meglio di quelle che erano le nostre idee di partenza. Abbiamo scelto sia il numero di pagine che il formato. Quindi alla fine ho completato questo libro sapendo che avrebbe raggiunto un pubblico più vasto e che avrebbe avuto una distribuzione maggiore.
Questo ha cambiato anche i tuoi piani narrativi?
No, questo no. Ma ha aumentato la mia pura perché sapevo che stavo scrivendo un libro molto personale. Era un qualcosa che mi serviva per distruggere un mostro che mi si era creato dentro. Quindi a quel punto il dubbio ti viene: forse questa cosa non servirà agli altri. Però io rimango sempre convinto che per quanto noi ci reputiamo sempre diversi gli uni dagli altri, non possiamo non renderci conto di quanto le nostre vite siano in realtà molto simili, di quanto l’essere umano abbia in realtà sempre le stesse sensazioni. Viviamo gli stessi stati d’animo in modo ciclico.
Verso marzo scorso, poi, ho avuto un blocco. Il libro tecnicamente era finito verso pagina 70 e non sapevo più come andare avanti, stavo pensando di mollare tutto e di recidere il contratto. Mi ha sbloccato il fatto che ho staccato realmente ed ho continuato a vivere la mia vita. Sono stato parecchio male, ho superato questo periodo ed ho deciso come finire la storia. Ma, in realtà, questa storia non è mai finita proprio perché io ho chiuso il libro a pagina 140 e l’ultima cosa che ho fatto è proprio quella di non chiudere mai il libro. Se qualcuno mi dovesse chiedere come leggere “Paranoiæ”, gli direi di leggerlo tutto in una volta e poi di rileggerlo subito dopo e poi fermarsi quando lo si ritene opportuno, perché questo libro non ha un inizio né una fine.
A questo proposito, nelle ultime pagine del libro c’è una sorta di frammentazione di vari elementi che si sovrappongono. Mi sono soffermato ad immaginare quale potrebbe essere, da un punto di vista prettamente cronologico, l’ultima pagina.
In realtà è vero: non c’è un’ultima pagina. C’è una sospensione da tutto, una sorta di confusione e la deframmentazione che sono andato a fare tra più personaggi e situazioni è sempre la stessa, solo vissuta in paralleli diversi a seconda della scelta che il lettore, o che Alan, fa in quel momento. Infatti il libro finisce e subito comincia l’epilogo e le pagine davanti alla tenda della finestra sono emblematiche, perché sei tu a scegliere quale decisione dovrebbe essere per te la più corretta. Ma se rinunci all’illusione, ti ritrovi in uno stato di sofferenza tale che, ad un certo punto, non riesci a farne a meno e sei costretto a tornare all’illusione. E’ quello il punto.
Il titolo “Paranoiæ” non ha nulla a che vedere con il libro in sé e per sé perché il disturbo paranoide della persona ha dei sintomi molto diversi da quella che è la situazione vissuta dal protagonista, il punto qui è il mostro che ti costringe a vedere le cose. Il concetto da cui sono partito è che colui che soffre di disturbi della personalità non è malato, ma ad un certo punto è come se diventasse lucido. Chi soffre di depressione nel momento in cui è depresso non è fuori dal mondo, in realtà è lui ad avere la verità in mano. Viviamo costantemente nell’illusione che ciò che facciamo abbia un senso, che realmente gli altri ci stiano considerando, che siamo importanti. Anche i social network alimentano quest’illusione di una vita da protagonisti. Il depresso, invece, perde tutte queste motivazioni e vorrebbe soltanto cadere. Ha peso tutto, ma in realtà ciò che ha perso è solo l’illusione.
Poi non c’è un finale perché ognuno di noi può scegliere quello che preferisce. Ci sono anche delle persone che mi hanno dato delle loro personalissime interpretazioni del libro che io non avevo immaginato. Ma sono plausibili, non esiste nulla di sbagliato. Io l’ho messo su carta ed ho creato un dubbio. Anche io stesso rileggendolo tra un anno potei trovarci dell’altro.
Quanto è stato duro mettersi a nudo di fronte ai lettori per scrivere ed illustrare questo libro?
Non mi nascondo, quello che succede nel libro è successo anche a me, in maniera un po’ distorta magari. Nel caso dell’episodio della Vucciria in particolare ho avuto una realzione con una ragazza a cui piaceva trascorrere i week end in quel modo. io magari non sono quel tipo di persona e quindi mi trovavo sempre ad essere l’unico sobrio e quindi l’unico “pazzo” che non vedeva l’illusione degli altri. La cosa divertente di “Paranoiae” è che io l’ho disegnato senza avere idea di cosa scrivere dentro fino all’ultima tavola. Poi l’ho scritto di botto in un giorno. Certo, questa è la cosa più sbagliata che potrei dire a chi fa o vorrebbe fare il fumettista, non si fa così un fumetto. Però l’ho scritto così. Sapevo cosa avrei dovuto scrivere man mano che disegnavo però le parole precise, le frasi, i tempi, no. Ogni volta che lo scrivevo mi sembrava stessi fingendo, mi stavo difendendo da me stesso e dagli altri che lo avrebbero potuto leggere. Però se questa cosa doveva funzionare, dovevo spogliarmi ed accettare il fatto che chi è davanti a me o mi avrebbe preso in giro, o si si sarebbe approfittato di questa debolezza o si sarebbe messo a nudo anche lui, non tanto per rispetto, quanto per fratellanza, come un ritorno al primordiale. Approfitto della tua debolezza, per essere anch’io debole, per mettermi a nudo e poter evitare di difendermi.
A proposito del rapporto tra tavole e testo, “Paranoiæ” funziona meglio nelle parti in cui sembra quasi che il testo ed il fumetto si separino, perché lì ti da la sensazione di star leggendo non più una singola storia ma due. Ci vuole la sensibilità di capire che ad un’immagine può associarsi un ragionamento diverso. Nessuno fa una cosa e pensa a quella stessa cosa mentre la sta facendo, mentre fai la fila in banca pensi ad altro. Quindi distaccarmi dalle tavole ed iniziare a scrivere senza avere il riferimento grafico è stata la cosa che mi ha portato ai testi definitivi.
Parliamo del tuo prossimo lavoro: la trilogia dei “Paperi” che verrà inaugurata da “Paperugo”, come è nata questa idea? Qual è il tuo primo papero online che ha scatenato tutto?
E’ una cosa nata davvero per gioco, il primo disegno di questo tipo l’ho fatto mentre ero in vacanza al mare. Avevo questi fogli di carta con la penna sfera ed i giotto turbocolor ed ho pensato di fare dei personaggi Disney nudi e cattivissimi. Abituato ad uno standard per i miei disegni di 50-70 like, vedo che quel disegnino ne prende 250. Ho pensato: “sarà che ho toccato uno
Le opzioni erano quelle di fare un volume più corposo oppure raccontare delle piccole storie. Ho scelto al seconda strada: raccontare tre piccole storie che usciranno durante l’anno in albetti spillati da 32 pagine. Alla fine della trilogia ci sarà un volume unico in cartonato che le raccoglierà ed avrà degli extra. Avevo delle sensazioni brutte vissute dopo il Treviso Book Festival, riguardanti il mondo delle apparenze e allora ne ho parlato con mio fratello Marco invitandolo a scrivere queste tre storie, la prima sarà “Paperugo”. I tre albi racconteranno dei pezzi di vita di questi paperi, potrebbero essere 3-4 ore della loro cruda quotidianità, Quello che noi abbiamo visto e continuiamo a vedere delle loro vite è una bugia. Una cosa resa in modo molto particolare anche dal punto di vista grafico. Quando ho letto la sceneggiatura di Marco mi stavo mettendo a piangere, sul momento mi ha molto colpito.
Questo tuo anno di lavoro cosa prevede?
Lavorerò su questa trilogia ed ho anche altri progetti che per il momento non posso svelare, anche con altri editori.
Quanto è importante oggi il mezzo social per un artista, soprattutto per un artista emergente, non solo per farsi conoscere ma anche avere dei feedback che ti facciano capire dove indirizzare i tuoi sforzi creativi e le tue energie?
Facebook è lo strumento più potente ed utile per farsi conoscere, il problema è che dal trarne un vantaggio si può arrivare subito a trarne anche uno svantaggio. Quando sono su Facebook sono sullo stesso piano sia del pubblico, che dei miei colleghi più o meno noti, che degli editori. Se io comincio da esordiente a rompere le scatole ad altri professionisti, allora mi sto facendo un danno: non bisogna mai rompere le palle, niente spam, niente tag. No. Facebook funziona se tu pubblichi regolarmente, non puoi pretendere di avere subito un grosso pubblico o un’impennata rapidissima. Quello che noto è che ci sono tanti artisti bravi che, però, si svendono pur di seguire tendenze e tormentoni. Quel botto di like che vi è arrivato in quel momento, magari, non vi è servito a nulla perché vi siete fatti conoscere per il motivo sbagliato. Quando ho disegnato i paperi non l’ho fatto con la finalità di macinare like, l’ho fatto perché ne avevo voglia. E’ una cosa che ho fatto prima di tutto per me. Di persone che seguono la moda oggi ce ne sono anche troppe, il coraggio è rimanere sempre se stessi.
Capisco la tua propensione per il fumetto indipendente. Come riesci a coniugare l’esigenza di scrivere delle cose tue senza subire le influenze di pubblico ed editore, con la dura realtà: quella che un fumettista, prima o poi, dovrà serializzarsi o realizzare qualcosa che venga imposto dall’editore?
In realtà ho realizzato il secondo volume di “Noumeno” perché mi è stato chiesto e proposto. Ci ero affezionato e, anche per il non trascurabile aspetto economico, l’ho fatto. L’unico modo per sopravvivere a questo dualismo è uno: essere più veloci e farle entrambe, altrimenti devi cercarti un altro lavoro. Io spero, ad un certo punto, di lasciare il mondo del fumetto e dedicarmi all’arte. Più avanti, perché adesso mi piace molto raccontare storie.
Su quale personaggio del mondo del fumetto ti piacerebbe dire la tua?
Mi piacerebbe riuscire a disegnare Howard (che è sempre un papero) o lavorare in Disney, dire la mia nel canonico mondo Disney. Sono molto affezionato a Dylan Dog ed Alan Ford. Ma oggi non so, i personaggi del mercato li trovo un po’ banalizzati. Se potessi esser libero di modificare l’atteggiamento delle storie, ti direi che mi piacerebbe lavorare dall’Uomo Ragno a Tex. Non nascondo che l’idea di disegnare una pagina di Tex mi farebbe impazzire.
Cosa leggi? Da cosa trai spunto?
La quotidianità è il mio spunto principale, anche Facebook, o meglio l’atteggiamento che hanno le persone sul social è una grande ispirazione. Come letture, non leggo tanti fumetti, non sono legato alla serialità. Lo ero. Compravo quasi tutto dell’Uomo Ragno: Amazing, Ultimate, etc. Poi l’amore per la Marvel è passato . Oggi compro solo un paio di libri l’anno. Quest’anno ho preso “Casi Violenti” di Dave McKean e Neil Gaiman, non bello come “Signal To Noise”, e poi ho preso l’omnibus di Howard il Papero perché è un pezzo di storia del fumetto. Leggo romanzi, guardo film e strani cortometraggi a cartoni animati muti che mi passano alcuni amici e ti mandano il cervello in pappa. Alle volte certo di essere volutamente disinformato perché chi è troppo informato nei fumetti poi uniforma troppo il giudizio. Così magari arrivi a scoprire le cose nel momento giusto, per il motivo giusto e quando ne hai bisogno.
Prima di salutarti, Giulio, ti facciamo la nostra classica domanda “da bar”. Se dovessi andar fuori a prendere una birra con due colleghi (che conosci o meno) chi sceglieresti?
Ci andrei con Dave McKean e con Bill Sienkiewicz, per forza. Potrebbe uscirne una sbronza interessante.
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