The Flash: o come sono tornato ad amare gli eroi in carne e ossa

E’ ufficiale: siamo nell’era dei supereroi sullo schermo. Caduti per anni nel semi-dimenticatoio tele-cinematografico, oggi i nostri amici mascherati vivono la loro seconda Golden Age, quantomeno dal punto di vista mediatico e commerciale. Sbancano i botteghini i film a loro dedicati ed iniziano, sempre con maggiore frequenza, a spuntare svariate serie TV legate ai nostri eroi di carta. Nulla di nuovo, sia ben inteso. Ma sfido chiunque ad affermare che ci sia mai stata prima d’ora una tale molteciplità e varietà di proposte legate a questo tema.

Ma i supereroi che vediamo al cinema e alla tele sono davvero quelli che ci hanno appassionato tra le pagine dei nostri comics? Riusciamo a riconoscere quei personaggi e a rivedere in loro ciò che tanto ci ha animato e ci anima, quando leggiamo le loro gesta? Per me no. Assolutamente no.

Ai vari annunci di produzioni cinematografiche da parte dei Marvel Studios e della Warner Bros, nel corso degli anni, ho sempre risposto alla stessa maniera: lì per lì con irrefrenabile ottimismo, poi, graduamente ma inevitabilmente, con un grosso mah!, godendomi sinceramente le scene action e gli effetti speciali spettacolari, ma conservando, film dopo film, un inspiegabile e costante senso di insoddisfazione. La ragione non mi è sempre stata chiara come adesso; ed ho continuato a credere che il problema fossi io, diventato forse troppo grande per certe futilità e non più in grado di emozionarmi di fronte alle gesta di un eroe poco verosimile.

Questo, fino a quando non ho avuto la fortuna di seguire la serie TV The Flash, spin-off di Arrow, in onda da quest’anno sull’emittente statunitense The CW. Una serie che, puntata dopo puntata, ha dimostrato una solidità neppure minimamente paragonabile alla serie da cui trae origine (per l’appunto Arrow) e che ha risvegiato in me quell’infantile coinvolgimento (inteso nel senso buono del termine) che credevo ormai definitivamente defunto. 

The Flash ci presenta un eroe profondamente diverso rispetto alle altre trasposizioni supereroistiche su pellicola. Un eroe dai tratti epici, il cui nome è palesemnete destinato a rimanere scolpito nella storia della sua città e del suo universo narrativo. Gli sceneggiatori sono abilissimi a porre l’accento sui profili più interessanti di Barry Allen e a toccare, di conseguenza, le giuste corde emzionali dello spettatore. Il travaglio di Barry, costretto ad assitere alla brutale morte della madre e ad allontanarsi dal padre in tenera età, ci permette di immedesimarci profondamente con la sua condizione di sofferenza. Lui ci appare impaurito e debole, proprio come lo sarebbe ognuno di noi; e la sua sofferenza è anche la nostra. L’ingiustiza subita dal padre di Barry (interpretato dall’attore John Wesley Shipp, già Flash nella mitica serie anni ’90), ingiustamente accusato dell’omicidio della moglie, non fa che aumentare l’empatia nei confronti del protagonista, apparentemente incapace di porre rimedio ad una situazione che sembra più grade di lui.

Ma è qui che entra in scena l’eroe. Il potere che gli viene concesso sembra qualcosa a cui era inevitabilmente destinato. Non un regalo sceso dall’alto o frutto di un cospicuo conto in banca, ma un premio vero e proprio che il ragazzo dimostrerà di meritare con le sue scete e le sue azioni. L’eroe è infatti inquadrato fin dall’inizio in una realtà narrativa in bilico tra presente, passato e futuro, suggerendo allo spettatore il messaggio che il ruolo di Barry non sia frutto del caso, ma piuttosto del destino. Un destino che solo il coraggio e la determinazione di Barry saranno in grado di piegare e modificare. Il suo potere, poi, sembra in grado di piegare lo spazio e il tempo, donandogli la dimensione mitologica propria di un dio.

Le sorti di Barry mi interessano a tal punto che desidero con ansia sapere cosa succederà. Il coinvolgimento è talmente forte che mi porta a preoccuparmi davvero per lui e per quel destino nefasto cui, sin dall’inizio, sembra andare incontro. Voglio bene a Barry anche perché non è tormentato. Lui non vive il suo potere come un peso, ma come un dono; come una possibilità di porre rimedio al male che lo circonda. E poi lui adora i suoi poteri. E’ lui stesso a dircelo, di tanto in tanto, sottolineando quanto sia fico essere l’uomo più veloce del mondo. E, in effetti, come dargli torto: vederlo sfercciare a tutta birra per le vie di Central City mi regala un senso di libertà e di partecipazione. Emozioni che gli altri eroi in costume, sia al cinema che in TV, tanto Marvel quanto DC, non sono stati in grado di regalarmi.

Pensate al Batman di Nolan, così intenso e carico di significato, ma anche troppo profondo e sofferto per creare un legame empatico con lo spettatore; oppure i cazzutissimi eroi proposti dai Marvel Studios, grandiosi e irraggiungibili, tanto da sembrare più giustizieri cosmici che terrestri. In quei film (ed in tanti altri) manca il fattore M, ovvero la Meraviglia negli occhi della gente che li acclama, che li sostiene e che crede in loro come ultimo baluardo di giustizia ed equità.

I supereroi hanno qualcosa di magico, ma non perché – come spesso si sente dire – il lettore tenda ad immedesimarsi in loro, ma piuttosto perchè è bello, anche se solo per pochi minuti, credere in loro. Non nella loro esistenza. In loro.
Lo scrittore di fumetti Mark Waid ha dedicato gran parte della propria produzione a questo semplice concetto e, in risposta alla dilagante moda del supereroe oscuro e tormentato, ha offerto una visione romantica e ispirante. Opere come Marvels e Kingdom Come sono state in grado di ricordare al mondo le ragioni per le quali da quasi un secolo i supereroi sono parte della cultura popolare di molti paesi.  

 

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