Mad Men – Recensione

È noto che dalla finzione si possano apprendere aspetti dalla realtà che ci potrebbero essere sfuggiti. Infatti, nessuna mente comprende la realtà più di una mente creativa: che si tratti di uno sceneggiatore, di uno scrittore o di un pubblicitario, il creativo ha il potere di riprendere gli aspetti più intriganti del nostro mondo, e degli uomini che lo popolano, e metterli insieme in una realtà irreale, fatta di personaggi che rispecchiano i vari aspetti della psiche umana.

Se il lavoro è compiuto da una mano esperta come quella di Matthew Weiner (già autore de I Soprano), il risultato non può essere qualcosa di troppo diverso da Mad Men.

 

I ‘Mad Men’ erano i pubblicitari che a metà del ‘900 lavoravano a Madison Avenue, esattamente come i protagonisti dell’omonima serie televisiva. L’agenzia pubblicitaria che fa da sfondo all’intera serie è la “Sterling Cooper”, in un periodo storico che copre tutti gli anni ‘60. I suoi dipendenti non sono altro che dei donnaioli con il bicchiere in mano e la sigaretta in bocca che, sotto il loro elegante vestito, nascondono l’infelicità di uno dei decenni più difficili del XX secolo.

In questo scenario, Don Draper (interpretato da Jon Hamm) è un brillante e affascinante creativo della “Sterling Cooper”, duro con i dipendenti più giovani e gentile con le segretarie, pronto a indossare la giacca per presentare un nuovo prodotto ma altrettanto pronto a levarsela appena torna nel modesto appartamento della sua compagna. Per poco meno di 40 minuti (la durata del primo episodio della serie) siamo certi di avere davanti un personaggio che non ha la presunzione di doverci stare simpatico, né possiede un ego smisurato pronto a ricevere l’odio del pubblico. Semplicemente un buon protagonista.

Eppure basta un’ultima scena, che lo vede tornare a casa non dalla sua compagna dai capelli scuri ma dalla bionda moglie e dai suoi due figli, per capire che Don Draper non è chi dice di essere.

A rendere evidente l’ambiguità del personaggio ci pensano gli autori, che inventano un misterioso passato del protagonista, in cui è conosciuto con il nome di Dick Whitman.
Gli autori decidono però, di circoscrivere il mistero dietro la vita di Don come Dick Whitman alla prima stagione. In questo modo esplicitano il concetto chiave della serie, per cui non è il passato di Don il vero mistero, bensì la sua personalità.

È un gigantesco eufemismo definire la personalità di Don complessa: è un bugiardo, e persino quando dice la verità lo fa per manipolare gli altri, tuttavia si rivela in più di un’occasione molto vulnerabile, come se Don Draper non fosse altro che l’ennesima pubblicità che Dick Whitman vende alla sua famiglia, ai suoi colleghi, e persino alle sue amanti.

Creare una personalità così complessa (la più complessa mai vista in una serie tv) si potrebbe giustificare come una scarsa abilità degli autori, che non sanno dare a Don una personalità ben definita. Invece essi riescono ad architettare una figura del genere senza essere mai incoerenti: non avremo mai la sensazione che Don vada contro i suoi principi, o contro delle scelte fatte precedentemente. Al contrario, riusciamo ad apprezzare ogni scena in cui lo vediamo protagonista, senza finire in ogni caso di domandarci “Chi è Don Draper?” (domanda che, non casualmente, apre la quarta stagione).

Ciò che allontana lo spettatore dall’idea che Don sia semplicemente uno sporco manipolatore, è il personaggio di Peggy Olson: la copywriter assunta all’inizio della serie, a cui Don si affezionerà tanto da definirla un’estensione della sua stessa personalità. Peggy è ambiziosa, tenace ed è l’unica persona che saprebbe rispondere alla domanda “Chi è Don Draper?”. Molte figure del suo passato (e non solo) saprebbero rispondere alla domanda “Chi è Dick Whitman?” ma solo Peggy conosce la personalità di Don, che si nasconde non solo dietro la figura di brillante pubblicitario, ma anche dietro l’infelice passato citato prima.

Per quanto riguarda i personaggi secondari, essi o hanno una psicologia abbastanza complessa che viene sviscerata lentamente nel corso della serie, oppure sono dei personaggi statici, sporadicamente protagonisti di corte sottotrame a loro dedicate ma che, per carisma o simpatia, sono facili da apprezzare.

A rendere più dinamici i comprimari, ci pensa un contesto storico che, avvicinandosi sempre di più agli anni ’70, cambia radicalmente. Infatti, anche se Mad Men non offre gli aperti e curatissimi scenari di Boardwalk Empire, ma al contrario, è spesso ambientato nei claustrofobici uffici della “Sterling Cooper”, è tra le serie maggiormente influenzate dal periodo storico in cui è ambientato. Il più interessante dei cambiamenti dovuti all’evoluzione storica della società, è l’avvento del movimento hippie e la conseguente diffusione di droghe più o meno leggere, che offrono sia situazioni psichedeliche (come una famosa scena di assunzione di LSD), sia altre in cui non siamo certi di vedere su schermo una scena reale o la fantasia di uno dei protagonisti.

La recitazione arriva a livelli molto alti, che raggiungono, ma non superano, serie come Breaking Bad o Game of Thrones.
Il confronto con grandi serie di quest’ultimo decennio, è necessario per avere un’idea chiara del prodotto che si ha davanti. Mad Men, infatti, è ben diversa da serie con numerose storyline come Game of Thrones o Boardwalk Empire, mentre è più che lecito il confronto con il mostro sacro delle serie tv d’oltreoceano, Breaking Bad.

Breaking Bad è una serie che mantiene un ritmo molto lento per poi esplodere in scene di massima tensione, accompagnate da una regia sperimentale e dinamica. Mad Men al contrario ha un ritmo veloce, eppure la trama si evolve molto lentamente, aumentando di moltissimo la componente autoconclusiva di ogni episodio, che chiude la maggior parte delle sottotrame aperte, e che rinuncia a qualunque tipo di cliffhanger, per offrire un’ultima scena che solitamente si limita a riassumere il significato metaforico presente in ogni puntata della serie.

La regia è molto curata ma osa solo in pochi casi, non proprio memorabili. La tensione suscitata dalle musiche di Dave Porter in Breaking Bad, è sostituita da quelle calme di David Carbonara. Inoltre, anche nelle situazioni più concitate, Mad Men non rinuncia al suo stile “calmo”. Persino in una scena che vede la morte di uno dei personaggi principali, l’approccio alla morte non esalta l’evento, anzi, lo propone su un piano più realistico. Il risultato non è sempre dei migliori, facendo capire quanto enfatizzare alcune scene, anche lasciandosi andare a reazioni particolarmente teatrali, facciano provare più emozioni di un approccio freddo e distaccato, come quello che vediamo in Mad Men.

Eppure è sbagliato definire difetto questa scarsa esaltazione delle scene più concitate, perché non contrasta mai la natura “calma” della serie, ma soprattutto non rappresenta il suo lato principale. Infatti, ciò che rende Mad Men una serie indimenticabile, è l’approfondimento dei personaggi, cosa che la rende la serie psicologica per eccellenza: la psicologia di Don Draper fa riflettere per ore e ore, offrendo spunti di riflessione che spaziano da argomenti banali e circoscritti alla sola vicenda raccontata, ad altre situazioni che si riflettono in modo inquietante nella società odierna.

Mad Men non è una normale serie, ma una vera e propria poesia che si può apprezzare a più livelli, infatti esserne affascinati è semplice, ma cogliere il messaggio racchiuso in ogni episodio non è sempre immediato. Ma chi avrà la pazienza di non distogliere lo sguardo dallo schermo, e vedere oltre il fumo delle Lucky Strike fumate dai protagonisti, potrà cogliere la realtà che il creatore Matthew Weiner vuole venderci, con la stessa maestria del suo Don Draper.

VOTO: 9.0

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