L’insicurezza è uno dei mali del nostro periodo storico, forse quello che risente della maggior virulenza al momento. Se non siete d’accordo, provate a fare un giro su un qualsiasi social network alla scoperta di una popolazione mondiale che fa dell’apparire e della ricerca di approvazione il leit motiv della propria esistenza. E ditemi se non è insicurezza, quella. Provate, però, ad immaginare per un momento se fossimo insicuri nello spazio profondo.
L’autore di Iperurania sembra essere su questa lunghezza d’onda fin dalla dedica del suo lavoro: lo dedica a se stesso, anche per una forma di bonaria ostentazione di sicurezza (o insicurezza). Francesco Guarnaccia compie un lavoro encomiabile ed ineccepibilmente artistico in questo volume edito da Bao. Iperurania è la storia di un pianeta che ci risucchia, un pianeta che non ci lascia più andare, un pianeta che, una volta che ti ha intrappolato nella sua estremamente forte gravità, non lascerebbe andare via neanche un tuo capello. Per uscire dall’ottima allegoria “guarnacciana”, permettetemi di dire che Iperurania parla della depressione. Raramente in una recensione si deve essere così espliciti, ma a volte bisognerebbe correre qualche rischio, per poter centrare il bersaglio. Il rischio che si è preso Guarnaccia è stato quello di creare un prodotto estremamente stratificato, in grado, però, di parlare davvero direttamente al cuore (e alla mente) del lettore. In casi del genere il protagonista può essere uno solo, eppure Guarnaccia si prende la briga di condire il suo lavoro con altri elementi, sebbene tenga sempre bene in vista il motivo centrale.
Accanto ad un filone che attraversa tutta l’opera, c’è quello di due personaggi presenti sulle pagine di Iperurania, ma che non ne sono unici protagonisti. Si tratta di Hood e Tenna, personaggi dalle dinamiche adorabili che non mancheranno di riservare un intrigante colpo di scena finale, il quale chiude la perfetta sottotrama di questi due personaggi. Hood e Tenna sono due ragazzini comuni, ognuno con le sue passioni (e tutti ci potremmo rivedere quegli amori adolescenziali coi quali scoprivamo davvero cosa ci piaceva e cosa detestavamo), fino a costituire una vera storia di formazione all’interno di una storia di formazione. Il loro desiderio di andare via, allontanarsi, trovare il modo di scappare per potersi esprimere liberamente è l’aspetto più umano di quello che rappresentano all’interno della storia di Gurnaccia. Resta il fatto che non sono loro i protagonisti di questa storia, ne seguono quasi per intero la parabola, sembrano una rappresentazione del lettore (per come seguono le vicende dei protagonisti), ma meritavano di essere trattati per primi, se non altro perché il loro “finale” quasi pareggia col finale della storia portante.
Quanto è difficile scrivere della trascinante gravità di uno stato d’animo, dovendone parlare con disegni ed immagini coloratissime, al limite dello psichedelico? Sarebbe bello fare questa domanda all’autore e sentire la sua risposta. Sebbene la difficoltà del tema trattato sia ben in vista, la cornice fumettistica contribuisce ad un risultato corposo, quasi tangibile, una serie di emozioni e sensazioni a dir poco coinvolgenti. Sicuramente l’autore ha puntato tutto sull’empatia che il suo protagonista, Bun, può suscitare, così come estremamente coinvolgenti sono le situazioni che si creano fra i tre amici Bun, Marsi e Chet. Di contro, anche il rapporto tra Bun e Cage (suo collega di lavoro) sarà fondamentale per lo sviluppo della storia, così come quello coi genitori. Amici, amore, lavoro e famiglia. Questi quattro capisaldi di Iperurania si mescolano, si intrecciano, lambiscono l’uno i confini dell’altro, si accavallano e costituiscono un insieme vitale ed evolutivo. Parlando di evoluzione, quella di Bun può apparire inizialmente lenta e non perfettamente sviscerata da Guarnaccia, che riesce così a tenere il lettore sulle spine per tutti i momenti cruciali della narrazione, facendone davvero un esercizio di stile piacevole e coinvolgente.
In uno stile di disegno quanto mai leggero e cartoonesco, Guarnaccia esplora le vastità non solo della depressione (a mio avviso), ma elabora un discorso che si amplifica e si amplia di volta in volta. Il pianeta Iperurania può rappresentare qualsiasi nostra debolezza, si può sostituire il malessere di Bun con un qualsiasi altro malessere per non vederne alterato il percorso di scoperta, consapevolezza, rifiuto e accettazione compiuto nel corso dell’opera. Nel contesto fantascientifico puntuale e “classico” nel quale Guarnaccia fa muovere i suoi personaggi e compiere la sua storia, possiamo ravvisare tutto l’intento della fantascienza, fin dagli albori letterari per approdare ai miti cinematografici, passando per le più recenti rielaborazioni videoludiche. Iperurania di Francesco Guarnaccia è una storia che parla una lingua comprensibile, ma che affronta un messaggio spesso criptato dietro l’insicurezza e la chiusura della società. Una chiusura diffusa che rende impossibile affrontare a viso aperto questioni estremamente delicate, senza rischiare di cadere nella parzialità e nell’esatto opposto della comprensibilità. Essere fraintesi, oggi, va di pari passo col dover apparire, con dover mascherare insicurezze e debolezze, perché si usano questi schermi proprio per non dover fare, prima di tutto, i conti con se stessi. Imparare da Bun è possibile, stendendosi sul prato di Iperurania e affrontando la gravità col sorriso.
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