Buffy l’Ammazzavampiri: Una breve storia

Siamo nel 1992 e Joss Whedon non è ancora Joss Whedon. Ha 28 anni e ha alle spalle giusto un paio di lavori televisivi in sit-com di grande successo. La prima è Roseanne (ABC), giunta qui in Italia con il nome di Pappa & Ciccia, con John Goodman come protagonista e acclamata dalla critica nel corso della sua storia. La seconda è Parenthood (NBC), tratta dall’omonimo film diretto da Ron Howard e interpretato da Steve Martin. Nel nostro paese, film e serie TV giungono con due nomi differenti: “Parenti, Amici e Tanti Guai” e “Fra Nonni e Nipoti”.Irritato ed ispirato dagli slasher visti durante gli anni ’80, lo scrittore newyorchese decide di produrre una storia per il cinema in grado di sovvertire il tipico cliché di genere. Whedon voleva mantenere la carneficina nel vicolo oscuro ma invertire i ruoli per un finale diverso. Stavolta la bionda ed attraente donzella sarebbe stata in grado di difendersi dal mostruoso aggressore, mostrandosi pienamente in grado di badare a se stessa. Era questa l’idea: una ragazza normale, con problemi ordinari ma portata casualmente verso una strada eroica tracciata dal destino. Un concetto che verrà completato successivamente con l’identità dell’aggressore: un vampiro. Inizialmente il suo nome era Rhonda, la Cameriera Immortale.

Da queste idee nasce la sceneggiatura del film Buffy: The Vampire Slayer. Diretta da Fran Ruben Kuzui ed interpretata da Kristy Swanson e Donald Sutherland, la pellicola si rivela una delusione per Whedon. Quella che doveva essere una metafora horror sulla legittimazione del potere femminile, era stata trasformata in pura commedia. L’opera era stata snaturata, lo script pesantemente riscritto e i dialoghi cambiati da un Sutherland definito “maleducato” e “stronzo” dallo stesso Whedon.

Ecco come Sarah Michelle Gellar guarda il film del ’92.

Passano cinque anni durante i quali l’autore si presta alla scrittura non accreditata di film come Waterworld e a quella accreditata per Toy Story, co-sceneggiato dalla sua penna e per cui si aggiudica una candidatura all’Oscar nella sezione Miglior Sceneggiatura Originale. Arriviamo al 1997: Joss Whedon riceve l’allettante proposta di trasformare il suo script cinematografico in uno show televisivo. Scrive un pilota di circa 25 minuti da presentare ai network televisivi -successivamente rinnegato dallo stesso Whedon- e l’attualmente defunta WB decide di acquistarlo. Buffy: The Vampire Slayer diventa una realtà televisiva il 10 Marzo del 1997.

Quindici anni dopo l’ultima puntata, l’importanza dell’epopea targata Joss Whedon è rimasta intatta. Anzi no, non è rimasta intatta. È aumentata a dismisura. A tal punto da avere un’estesa bibliografia di saggi alle sue spalle e un termine specifico ufficiale per indicare gli studi che la riguardano: Buffology. Ma non sono soltanto gli interessi accademici a legittimare l’importanza di una serie TV. Quello che ha reso Buffy una pietra miliare sono i profondi cambiamenti che ha apportato nel linguaggio televisivo.

Prima dell’avvento di B:TVS, c’era una netta distinzione nella serialità televisiva: da una parte c’erano gli show “intellettuali da prendere sul serio” e dall’altra produzioni considerate priva di pretese. Una delle più importanti sitcom degli anni ’90 era Seinfeld, pilastro della commedia postmoderna e vincitrice di una decina di Emmy Award. Il suo ruolo di serie televisiva basata sul nulla era cosciente e, come tale, agiva di conseguenza, rimarcando la sua distanza dalle produzioni seriose dell’epoca all’interno dello show stesso.

Con la scooby-gang di Sunnydale il divario viene colmato. L’ibrido tra dramma e commedia diventa uno dei cardini dello show. La scrittura, intelligente e consapevole, riesce a proporre terribili situazioni apocalittiche per poi tingerle d’ironia. Nonostante la base puramente fantasy dell’Ammazzavampiri scelta dal destino, Buffy resta saldamente ancorato alla realtà attraverso i suoi personaggi e alle problematiche legate all’ambiente scolastico che li circonda. Tutto dovuto ad una precisione millimetrica nella caratterizzazione dei protagonisti.

Un’ammazzavampiri con superproblemi? Parafrasando la celebre affermazione dedicata al supereroistico Marvel, è possibile impostare un parallelismo con la serie di Joss Whedon. La narrazione di Buffy segue stilemi tipici del fumetto d’azione americano ma completamente nuovi per le televisione generalista: una struttura verticale episodica tipica dell’epoca, collegata saldamente ad una trama orizzontale decompressa lungo tutta la stagione. Un linguaggio narrativo inedito che porta ogni iterazione a non avere mai tematiche ripetitive.

È possibile sintetizzare la prima stagione di Buffy con una singola frase: le superiori sono un inferno. Nel caso del Sunnydale High non si tratta di una metafora. La scuola frequentata da Buffy, Xander e Willow è letteralmente una delle bocche dell’inferno, luoghi in cui le barriere tra dimensioni sono più labili e le energie sovrannaturali più intense. Le tribolazioni tipiche dell’età liceale diventano un nemico tangibile, manifestazioni fisiche e reali di quei demoni adolescenziali apparentemente impossibili da sconfiggere.

Nata per la Warner come un rimpiazzo temporaneo per la soap-opera Savannah, la prima stagione di Buffy va in onda per sole dodici puntate. La serie è ancora acerba e la struttura verticale degli episodi è preponderante. Nonostante questo, l’idea di portare l’orrore cinematografico alle superiori funziona e, oltre a porre le basi per un preciso genere chiamato successivamente teen-horror, gli ascolti confermano il successo della sperimentazione di Whedon. Buffy si guadagna così una seconda stagione che, in linea con tutti i serial dell’epoca, viene allungata a 22 episodi. Inoltre la direzione cambia e lo show concentra le sue attenzioni sulla crescita personale della protagonista. La lovestory tra Buffy ed il vampiro Angel prende il sopravvento e l’arco narrativo che pone come villain Angelus, l’alter ego malvagio di Angel, diventa fondamentale. Una dichiarazione d’intenti palese che simboleggia la volontà di non voler restare stagnanti nello storytelling. Il risultato è una delle migliori stagioni dell’intera serie. Semplice e lineare nelle sue intenzioni narrative ma stratificata e complessa nell’esecuzione.

Il successo è arrivato e Whedon continua a giocar bene le sue carte. Dopo la stratosferica seconda stagione, la season 3 diventala regina dell’audience dell’intera serie. Non verranno mai raggiunti questi picchi d’ascolto. E così, tra il 1998 ed il 1999, termina la prima era di Buffy The Vampire Slayer. Escludendo l’introduzione dell’ammazzavampiri ribelle, Faith, molti cerchi si chiudono: Angel lascia la città, terminano le superiori e il Sunnydale High viene distrutto durante lo scontro contro il villain della stagione.

Un gran bel pezzo di televisione.

La stagione 4 è un nuovo inizio: le superiori sono terminate e inizia un periodo di esplorazione e novità per tutti i personaggi. Willow si prende il ruolo di fulcro narrativo del serial, diventando parte di una delle prime coppie lesbo presenti sul piccolo schermo negli USA e della più intensa storia d’amore di tutta la serie. Spike si unisce alla scooby-gang e diventa una presenza fissa dello show. La protagonista scopre un nuovo interesse amoroso, accidentalmente parte dell’Organizzazione, il debole villain della serie. L’intento di Whedon è palese: dopo la quadratura dei cerchi della stagione 3, le strade da percorrere sono nuove ed innumerevoli. Se da una parte alcuni spunti si sviluppano al meglio, soprattutto quelli relativi alle interazioni tra i personaggi, dall’altra gli elementi prettamente inediti della stagione non sempre riescono a funzionare.

La famiglia è il perno attorno a cui ruota tutta la quinta stagione. Come affermato dallo stesso Whedon, la volontà era quella di far tornare i personaggi alle loro radici dopo un anno passato senza madri. È proprio Joyce Summers, la madre di Buffy, ad avere un ruolo primario lungo tutta la serie, accanto all’elefante nella stanza impossibile da ignorare: Dawn. Protagonista di una ret-con in medias res, la sorella dell’ammazzavampiri è letteralmente e metaforicamente La Chiave di tutta la stagione. L’arco narrativo principale si fregia di uno dei migliori villain di tutta l’opera e la scrittura raggiunge una potenza mai vista prima. Nonostante alcune imperfezioni, come episodi stand-alone intrusivi come mai prima d’ora, la stagione 5 chiude la Seconda Era di Buffy L’Ammazzavampiri affermandosi come una delle più apprezzabili.

Siamo nel 2001 e per la creatura di Joss Whedon è tempo di cambiamenti. L’autore sta preparando un altro pezzo di storia della televisione chiamato Firefly, sta lavorando come showrunner su Angel e sta scrivendo Fray per la Dark Horse Comics. E così, pur mantenendo il suo ruolo di scrittore e regista nello show, Whedon cede ufficialmente il timone a Marti Noxon, già sceneggiatrice sin dalla seconda stagione, che assume anche il ruolo di produttrice esecutiva. La Warner cede lo show alla United Paramount Network, dopo aver deciso che il picco era già stato raggiunto e che incrementare i salari della troupe e del cast sarebbe stato uno spreco.

Da questi scossoni nasce la sesta stagione, la più cupa e deprimente dell’intera serie. Cleptomania, relazioni malsane, depressione, dipendenza, la momentanea assenza di un mentore come Giles, morte. Queste ed altre sono le tematiche prese in considerazione. Ma non è tanto l’utilizzo di argomenti a tinte fosche a rendere questa stagione così nera. È il colore della narrazione a cambiare completamente. Lo spazio per la leggerezza diventa molto limitato. Paradossalmente, nonostante la presenza di momenti parecchio forti, l’episodio di questa stagione che resterà per sempre impresso nella storia della serie sarà la parentesi musical di “Once More With Feeling” (episodio 6×07).

La settima stagione chiude la terza ed ultima Era di Buffy L’Ammazzavampiri. Whedon & Co tornano alle origini, riportando Sunnydale, il girl power ed una rinnovata luce dopo l’oscurità degli episodi passati. L’autore dichiara di essersi sentito stanco del pervasivo umore nero che caratterizzava la stagione precedente e riporta l’attenzione anche su Buffy. Il risultato è un back-to-basic emotivamente coinvolgente ed in grado di far quadrare ogni storyline, indebolito però da una certa mancanza di coesione narrativa. Nonostante questo, Buffy chiude dignitosamente i battenti e lascia per sempre la sua indelebile impronta nella storia della serialità.

Nessuno è immune alla gnocca che mena. Nessuno.

Come dichiarato dallo stesso Whedon, il suo intento è sempre stato quello di lasciare ai posteri un importante pezzo di cultura pop. Uno show intelligente, divertente e coinvolgente. Uno show che rispecchiasse la visione di un uomo cresciuto da una donna da lui ritenuta una femminista. Inutile dire che la sua voce è arrivata ovunque. Una voce che ha letteralmente prodotto ed inventato un nuovo linguaggio, il cosiddetto “Buffy Speak“. Tipico dei giovani personaggi della serie televisiva, è quella modalità di dialogo di coloro che, seppure intelligenti, non hanno strumenti, conoscenze, esperienza ed educazione per poterlo esprimere tutto con termini specifici. Il linguaggio diventa quindi un ibrido tra il tipico slang adolescenziale e parole relativamente appropriate.

Spesso caratterizzato da una velocità frenetica nell’esposizione ridondante di concetti complessi, il Buffy Speak è diventato lo standard per numerosissimi scrittori ed ha trasceso il media di riferimento.

Quelle che erano le intenzioni di Whedon nel 1992 si erano realizzate. La bionda svampita apparentemente insignificante era diventata assolutamente straordinaria. Aveva bucato lo schermo ed era divenuta la pioniera di una nuova generazione di eroine, donne in grado di mescolare l’estrema potenza di Ellen Ripley e Sarah Connor, la vezzosa femminilità di una cheerleader e la normale vita di una comunissima teenager.

Il debito di Whedon nei confronti del mondo fumettistico è enorme. Gli X-Men, soprattutto quelli di Claremont, hanno avuto una forte influenza su Buffy The Vampire Slayer. Sia nella gestione della famiglia/scooby-gang che in numerosissime scelte puramente narrative, tra cui l’eclatante riferimento alla saga di Fenice Nera con il personaggio di Dark Willow. Basti pensare che, come dichiarato dallo stesso autore, la madre spirituale dell’Ammazzavampiri è Kitty Pryde, personaggio tra l’altro centrale nella sua splendida gestione mutante.

Persino il cognome Summers non è casuale: durante il San Diego Comic-Con del 2013, Whedon ha dichiarato che l’eroina del suo show televisivo ha di poco mancato la parentela con Scott Summers, meglio noto come Ciclope. Il collegamento tra i due si sarebbe basato sull’episodio “Normal Again” della sesta stagione, in cui Buffy comincia a credere di non essere un’Ammazzavampiri ma una paziente di un manicomio. Durante il suo periodo su Astonishing X-Men, Whedon aveva in mente di inserire una linea di dialogo in cui Ciclope avrebbe fatto riferimento ad una cugina rinchiusa in un istituto psichiatrico perché convinta di essere una cacciatrice di creature oscure.

È stata la voce di Joss Whedon a portare Buffy nell’olimpo televisivo, non quella della narrazione fine a se stessa. L’autore ha portato avanti con determinazione la sua visione in un media che non aveva ancora pienamente scoperto le sue potenzialità e che stava muovendo i primi passi nel mondo della sperimentazione.

Grazie a Buffy Summers, Joss Whedon è diventato Joss Whedon.

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