La mia intenzione all’inizio era semplice: scrivere una bella recensione di Dragonero. Tanto doveva essere una recensione facile, di un fumetto che in parte già conoscevo e che, pensavo, mi sarebbe sicuramente piaciuto. Le premesse per fare bene erano molte, a partire dagli autori Luca Enoch e Stefano Vietti – veterani della Bonelli che già conoscevo e apprezzavo – passando per un genere che normalmente non disdegno affatto e, per concludere il riferimento, a una storia pubblicata in precedenza (romanzo a fumetti omonimo del 2007) che mi era piaciuta.
Inoltre tale fumetto doveva costituire il punto più alto dell’innovazione in Bonelli, infatti il prodotto aveva il compito di conciliare da un lato i contenuti – che riguardavano un nuovo protagonista e un nuovo genere – e dall’alto lato una nuova impostazione tecnologica che si sarebbe dovuta creare grazie soprattutto al blog ufficiale. Il blog in sé non è malaccio, ma se la sua intenzione era quella di traghettare il lettore verso una dimensione che alcuni hanno chiamato Bonelli 2.0, forse è da ritenersi anch’esso un’opera incompiuta. Parlando a titolo strettamente personale, il fumetto mi ha deluso proprio perché le aspettative da parte mia erano piuttosto alte, o per meglio dire, erano altre.
Però mi rendo conto che per comprenderlo in pieno bisogna fare alcuni passi indietro.
Prima di tutto cosa significa la parola “nerd”? Anche se adesso è un’espressione inflazionata – come molte di quelle prese dall’inglese – e comincia a non significare più nulla di specifico, essere nerd una quindicina di anni fa, a prescindere da quale definizione si voglia dare al termine, era completamente diverso dall’esserlo oggi. Non che ci fossero le ghettizzazioni che si vedono nei film americani, ma è pur vero che questo modo di essere era visto spesso alla stregua di una malattia, di un sintomo di inadeguatezza sociale, di un rifugio rispetto alla vita vera o, nella migliore delle ipotesi, di un modo facile per buttare i soldi. In poche parole l’ignoranza e gli stereotipi la facevano da padrone. Come se non bastasse il mondo era anche pieno di psicologi della domenica (generalmente i genitori o i professori) che dicevano di lasciar perdere queste cose e di dedicarsi alle ragazze, all’automobilismo, alla palestra o a cose ritenute, in genere, più salutari e più socialmente accettabili. Chiaramente in una città piccola, come quella dove viv(ev)o, il fenomeno era ritenuto ancora più strano.
Questa premessa è necessaria perché molto prima di internet, quando i fumetti pubblicati dalla Bonelli erano altri e i manga e i supereroi si contavano sulle dita di una mano, il fantasy era il genere “nerd” per antonomasia. Il fantasy era la porta principale attraverso la quale emanciparsi ed entrare in un nuovo mondo: grazie alla lettura del celeberrimo libro di Tolkien, Il signore degli anelli, molte giovani menti cominciavano a ritenere la letteratura non più solo un obbligo scolastico, ma un piacere. Subito dopo sono arrivate le partite, anzi le campagne, a Dungeons&Dragons, che sono state le primissime interazioni con un mondo parallelo e virtuale avute dai figli della spensieratezza e vacuità degli anni Ottanta.
Da lì in poi è difficile tracciare un percorso preciso, tutto ha cominciato a riprodursi in maniera esponenziale, sono arrivati altri giochi di ruolo e altri fumetti. Nello specifico, per ritornare al nostro ambito di fumetti fantasy, soprattutto due manga hanno fatto da spartiacque Bastard! e Berserk.
All’epoca lessi anche altri fumetti ma questi erano innovativi per diverse ragioni: un nuovo tipo di protagonista, la complessità della trama, la rappresentazione della vita, della violenza, dell’amore, la struttura della storia, il ritmo dei colpi di scena e tanti altri piccoli dettagli che li facevano spiccare ai miei occhi.
Probabilmente chi li leggesse adesso non li troverebbe così originali, ma all’epoca – si parla suppergiù della seconda metà degli anni Novanta – questi fumetti significavano qualcosa.
Il nodo centrale di tutta la discussione è che la diversa opinione che le generazioni successive alla mia avrebbero dei succitati manga nasce da una considerazione di base: il fantasy, grazie soprattutto alla tecnologia, è cambiato in questi anni. C’è stata, e ci sarà ancora, la riduzione dei libri di Tolkien – che molti di noi all’epoca ritenevano impossibile, anche considerando il non fortunato tentativo di Ralph Bakshi –. C’è stata una miriade di videogiochi e di saghe letterarie. Ormai, in tempi relativamente recenti, i libri e la serie televisiva di Games of Thrones stanno sdoganando l’intero genere e il patrimonio della subcultura fantasy si sta proponendo come tema non solo per gli appassionati di vecchia data, ma anche per coloro che, fino a qualche anno fa, snobbavano gli elfi, i draghi e le altre creature.
Su Games of Thrones si potrebbero dire un’infinità di cose: la forma in cui è scritto è quella letteraria per eccellenza, e Martin ha dimostrato che una storia, se accattivante, può funzionare senza ricorrere a orpelli narrativi, e non ha bisogno di stravolgimenti sostanziali nel momento in cui essa viene tradotta in immagini. Certo, per come la vedo io, nella serie televisiva il ritmo non è costante e subisce accelerazioni e rallentamenti, i quali sicuramente sono più adatti alla pagina di un libro che a uno schermo televisivo, però d’altro canto quante linee narrative ci sono? È difficile quantificarle, ma credo almeno sette/otto sottotrame che interagiscono continuamente tra loro. A voler trovare il pelo nell’uovo penso che qualche soldino in più non sarebbe spiaciuto alla produzione, ma al netto di queste considerazioni, è innegabile il contributo al genere portato da Martin. L’autore ha condotto alcuni dei temi tipici del genere – come l’usurpazione, la vendetta o il viaggio – all’interno di un contesto strutturale moderno, e forse addirittura post-moderno. Martin ha rielaborato un prodotto nuovo partendo dagli archetipi classici nella sostanza, ma attraverso una forma innovativa, e così facendo è riuscito a conquistare tanto i lettori abituali di fantasy, quanto quelli più smaliziati e meno inclini alla letteratura di genere, che magari sono stati ingolositi dalla versione televisiva.
Penso, magari sbagliandomi, che il 90% dei potenziali lettori di Dragonero abbia letto i romanzi di Martin o abbia visto almeno una puntata della serie televisiva. Credo che alcuni, come il sottoscritto, frequentano il genere praticamente da quasi due decenni, e ne hanno viste di cotte e di crude.
Per venire finalmente a noi, ho letto che Dragonero è stato pensato nel 1995, e forse nel 1995 avrebbe dovuto essere pubblicato. Oggi questa è una storia con poca originalità: il fango pirico ricorda davvero troppo l’altofuoco; il sangue del drago ha cambiato la vita già di molti personaggi, gli ultimi dei quali, per rimanere in tema, sono i Targaryen. Ma al di là di questi dettagli, che possono anche essere coincidenze, la verità è che durante la lettura si è costantemente all’interno dell’universo del già visto e già vissuto: gli elfi che percepiscono la natura in modo speciale; la combriccola di eroi – pronta a dare la vita l’uno per l’altro – che va in missione. Insomma la storia non è scritta male, ma ci ho visto una riproposizione e non una rielaborazione dei temi: un’operazione senza senso per me, o quantomeno anacronistica. Inoltre non mi è piaciuto il fatto che sia costruito in saghe e non in albi autoconclusivi, formato secondo me più adatto al lettore occasionale e all’affezionato della Bonelli. Comunque almeno il primo numero poteva essere una storia finita.
Questo ultimo aspetto, che può sembrare marginale, esprime in realtà una contraddizione non da poco: perché un conto è cercare come obiettivo di mercato gli appassionati del fantasy (come credo si stia goffamente facendo), un altro conto è portare i lettori Bonelli di altre testate e altri generi a leggere anche fantasy. Per come la vedo io, i due pubblici hanno interessi inconciliabili e alla fine, nel tentativo di non scontentare nessuno, esiste il pericolo che si finisca per produrre storie insipide.
Con grande rammarico personale devo però ammettere che, molto probabilmente, se avessi letto Dragonero nel 1995 mi sarebbe piaciuto di più.
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