Apparentemente impossibile da realizzare in una forma video (causa copyright), ho deciso di pubblicarlo come articolo del Bar, sperando che accolga un certo seguito!
L’idea di base è nata circa cinque mesi fa nel vedere l’uscita cronologica dei vari album musicali; e così, partendo dai generi che più ci piacciono, ovvero, cantautorato e metal, abbiamo deciso di analizzare, biennio dopo biennio, i vari album in uscita.
Perché sto parlando al plurale? Perché a curare il lato Metal sarà principalmente il mio amico Umile Daniel Fabbricatore, che io riconosco come “Metal Boss”. Ma, come si dice, bando alle ciance e cominciamo!
Cantautori Italiani, Biennio 1966-’67
Benvenuti in questa mia seconda rubrica a puntate (la prima, ancora in corso, è “Da Walt Disney a Miyazaki” ed i relativi articoli sono: Walt Disney, il nuovo poeta dell’animazione, Silly Symphonies e I fratelli Fleisher e Tex Avery), rubrica che si intitola Musica nel tempo e nella quale affronteremo due diversi generi musicali, il metal ed i cantautori italiani dalla fine degli anni 60 fino agli anni 70.
Gli anni ’60 hanno rivoluzionato la storia della musica, trasformando i generi “base” come il Blues ed il Country/Folk, in esperienze musicali più innovative, alla ricerca di nuovi sound che sfruttassero la forza e l’energia della musica elettrica.
Pionieri, nonché progenitori di questa rivoluzione musicale, possono essere considerati: B.B. King (per quanto riguarda il Blues), Bob Dylan (per l’area Folk) e successivamente i Beatles, che iniziarono a dare larga piazza ad un Rock più commerciale; gli unici, questi ultimi, in grado di influenzare colui che, invece, ha influenzato quasi tutto il panorama sonoro, ovvero, Bob Dylan. Loro sono i tre simboli di una rivoluzione, di un contagio globale che romperà le barriere dei popoli e quelle culturali.
Il Rock visto come genere tramite il quale ribellarsi al sistema, genere popolare ma al contempo così ricercato nelle sue sfumature da non essere apprezzato da tutto il pubblico di quegli anni, viene accolto persino in Giappone o nella Russia del dopoguerra, due paesi in contrasto con la cultura occidentale/americana. La febbre del Rock non risparmia neanche l’Italia che, da un lato genera alcuni dei più pregiati gruppi Progressive Rock (PFM, Banco del Mutuo Soccorso, Le Orme, Osanna, AREA, ecc.); e dall’altro, la musica di stampo popolare, derivante dal primo (probabilmente il più amato e conosciuto) Bob Dylan.
Ciò fa nascere una controcultura che in Italia avrà i suoi maggiori rappresentanti, in lizza con le canzonette da anni ‘50, disimpegnate e spensierate. Stiamo parlando di un genere musicale molto particolare, poetico e vicino alle tematiche sociali, capace di spaziare per molti generi musicali, non ricercando gli assoli raffinati di molti generi del Rock, ma mantenendo comunque una ricerca musicale e soprattutto testuale, molto alta. I protagonisti di questo genere, che oggi, probabilmente, non può essere replicato per ragioni di storia e di cultura, sono i Cantautori, evolutisi dalla seconda metà degli anni ’60 alla fine degli anni ’70, figli della cultura anarchica, di una grande rivoluzione culturale e sociale.
Probabilmente è doveroso dare il titolo di loro “capostipite” a Luigi Tenco, la cui morte diede vita al Club Tenco il cui scopo, come recita lo statuto è quello di «riunire tutti coloro che, raccogliendo il messaggio di Luigi Tenco, si propongono di valorizzare la canzone d’autore, ricercando anche nella musica leggera dignità artistica e poetico realismo». Proprio da questo Club, in contrasto netto con quello di Sanremo, passano le migliori voci cantautoriali italiane.
Era il 1966 quando uscì il primo album di Lucio Dalla, ispirato dalla matrice Blues; album che marca le sue particolarissime doti canore, il suo estro, la sua genialità nel comporre nuove sonorità ed un forte divario fra testi che hanno dell’onirico, a testi molto vicini alle difficoltà comuni della vita delle persone.
L’album ha un titolo molto particolare 1999, allora visto come un anno di limite, di confine, come d’altronde è ogni millennio, ma Dalla descrive una fine ambigua, come quella che sarà descritta in Noi non ci saremo di Francesco Guccini, dipingendo la solitudine di un mondo ormai finito, deserto; ma in questo deserto, Lucio Dalla ritrova una sorta di calma interiore, di pace quasi orientale, nella quale può parlare con il vento e, finalmente, non c’è più guerra fra gli uomini.
L’aggiunta della seconda strofa, invece, marca un senso di disagio verso non solo gli altri, ma anche verso se stesso; in questo mondo post apocalittico, forse, c’è solo l’illusione di una vita più serena. Ma nel momento in cui si comprende di essere avvolti dal nulla, la paura prende il sopravvento.
Favorevole al suo innato estro è, invece, L.S.D..
Le esperienze psichedeliche dovute all’abuso di droghe sintetiche, che invade il panorama artistico internazionale, non risparmia quello italiano, infatti il tema della droga è molto popolare nelle canzoni dei cantautori. Dalla, però, riesce a rendere l’idea degli effetti della droga tramite la sua tecnica vocale, senza adottare distorsioni particolari nella musica e nella voce, tramite gli sbalzi di tonalità e le modulazioni vocali, si riesce ad avere una chiara immagine delle conseguenze dell’L.S.D, il tutto supportato da un testo molto esplicito di questo “viaggio” che il soggetto drogato, intraprende. Insomma è una delle canzoni di 1999 che mettono in risalto la bravura di questo cantautore bolognese.
Bisognerà attendere il 1967 per l’uscita del primo album firmato da Francesco Guccini , anche lui di scuola Bolognese, al contrario di Lucio Dalla, è un cantautore che si lascia ispirare da Bob Dylan, Infatti spiccano i suoni dell’armonica e della chitarra folk e non a caso l’album s’intitola Folk Beat N°1, probabilmente con l’idea di crearne anche degli altri (anche se in interviste recenti ha rivelato come non avrebbe scommesso una lira sulla pubblicazione del suo secondo CD), ma di matrice completamente Folk rimarrà l’unico cd della sua carriera, scivolata verso l’area più blues.
La tracklist contiene brani che rappresentano in pieno ciò che sarà Guccini, ad accezione delle sue canzoni di invettiva contro un certo tipo di società e di politica, come sarà L’Avvelenata, e le canzoni dei ricordi, che caratterizzeranno gran parte della sua storia da cantautore e scrittore; ma c’è la canzone tratta dalla vita quotidiana, In morte di S.F.; c’è quella storico-sociale come Auschwitz; c’è la canzone ironica, Il 3 Diembre del ’39; quella non tratta da una particolare storia realmente accaduta, ispirata ad una matrice stilistica più francese, La ballata degli annegati e poi due brani ispirati più dichiaratamente a canzoni di Bob Dylan quali: Statale 17 (Highway 61 Revisited – Bob Dylan) e Talkin’ Milano (Talkin’ New York – Bob Dylan).
Le prime opere di Guccini vengono inoltre rese celebri dalle interpretazioni di un gruppo musicale molto vicino all’esperienza del cantautore bolegnese: i Nomadi, gruppo al quale vennero affidati alcuni dei più bei testi di Guccini: Noi non ci saremo, Noi, il disgelo e molte altre. I brani vennero inseriti nel loro album d’esordio intitolato Per quando noi non ci saremo.
I Nomadi conquistano immediatamente le attenzioni del pubblico, per il loro sound pop-rock ed i testi impegnati in linea con lo stile cantautorale. Nel loro primo album troviamo ancora riferimenti a Bob Dylan con Ti voglio, cover di I want you, oppure Come potete giudicar, cover di The revolution kind di Sonny Bono.
Così, mentre in Italia si cantava Dio è morto ed a Bologna cominciavano a riunirsi nelle balere ed osterie o in piazza Grande, artisti come Lucio Dalla, Francesco Guccini e Augusto Daolio (storico cantante dei Nomadi e grande amico di Guccini); altrove venivano prodotti dischi come: John Wesley Harding di Bob Dylan e Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, entrambi inclusi nei cinquecento album più belli della storia del rock, fra i quali, quello dei Beatles, ottiene la prima posizione.
Ma fra le scuole cantautorali, spicca, nel 1967, anche quella genovese, grazie al nome di Fabrizio De André, che intitolerà il suo primo album Volume I.
De André, soprannominato Faber dal suo caro amico d’infanzia Paolo Villaggio, di discendenza borghese, si afferma come uno dei più ricercati e raffinati cantautori del periodo. Le canzoni di Volume I hanno svariate citazioni e alcune trasposizioni di musiche o cover di testi stranieri (in particolar modo del francese Georges Brassens), ma contiene anche riferimenti ad opere letterarie come La divina commedia.
L’album rappresenta ciò che saranno, in gran parte, le tematiche che il cantautore tratterà nei seguenti lavori: suoni e richiami medievaleschi, un occhio di riguardo ad una certa classe sociale disagiata e oppressa dalla classe abbiente, da cui lui discendeva e conosceva bene i difetti, nonché una forma di spiritualità che si racchiude tutta nel brano Si chiamava Gesù, in cui De André mostra il grande rispetto che ha nei confronti della figura di Gesù in quanto uomo. Egli, pur non riconoscendovi alcun segno di spiritualità, afferma che i suoi insegnamenti ed il suo sacrificio hanno tentato di guidare l’umanità verso un domani migliore, ma nonostante gli sforzi non è riuscito ad estinguere il male dal mondo.
L’era dei cantautori è iniziata con questi tre grandi protagonisti della canzone italiana, ma, molto presto, sugli inizi degli anni ’70, fioriranno anche altre scuole di cantautorato, in particolar modo la scuola romana, napoletana e milanese.
P.S.: La scelta temporale dei cd è basata sulle informazioni relative ai gruppi che seguo. Sarebbe impossibile elencare tutte le uscite, quindi ecco la mappa di questo primo biennio!
Mappa biennio ’66-’67
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