TWR retrospettiva: The Wire è la miglior serie TV mai realizzata?

Mi rendo conto che, nell’era del clickbaiting più sfrenato, il titolo di questo pezzo possa sembrare una provocazione acchiappona volta solo a fare click. Non è così. Lo spunto di partenza è la classifica di Empire Magazine delle 50 migliori serie TV di tutti i tempi. Classifica che, fino al 2018, vedeva primeggiare proprio The Wire, il poliziesco HBO andato in onda per 5 stagioni tra il 2002 ed il 2008.

Iniziamo subito rispondendo alla domanda: è la miglior serie mai realizzata? Chissà. Non si può rispondere in maniera oggettiva a questa domanda, per me è una delle 4-5 migliori cose mai prodotte per la TV. Quel che è certo, però, è che The Wire è eccellente sotto tutti i punti di vista. Una serie che, durante il periodo di messa in onda, non ha avuto il successo di pubblico che avrebbe meritato semplicemente perché è arrivata troppo presto, in un periodo in cui la TV stava cambiando e gli spettatori non erano ancora abituati ad un taglio così autoriale. Sì, perché The Wire ha demolito i cliché del poliziesco procedurale, ha eliminato la necessità di avere un personaggio che fungesse da protagonista, ha portato i programmi televisivi ad un nuovo livello di realismo e, soprattutto, ha abbandonato l’impostazione viewer friendly delle serie TV dando il via ad uno sviluppo prevalentemente orizzontale della trama che premia gli spettatori hardcore.

E allora torniamo indietro al 2002 e parliamo di The Wire, imprescindibile capolavoro televisivo di David Simon.


– Ciao sono David Simon, ho cambiato la TV e tu non te ne sei accorto – 

The Wire significa “la cimice” e la scelta di questo titolo, ovviamente, non è casuale.
In un momento storico in cui la polizia sul piccolo schermo risolve casi ben oltre il limite dell’inverosimile grazie alle avveniristiche indagini di laboratorio ordinate da un entomologo forense (mi riferisco a Gil Grissom ed a C.S.I.), The Wire presenta le indagini quelle vere, la polizia “pane e formaggio” fatta di appostamenti, intercettazioni ed informatori. Situazioni in cui, per piazzare una cimice, ci vogliono per lo meno 4 episodi.

A creare la serie è David Simon, scrittore e giornalista di Baltimora. Nei primi anni ’90 Simon pubblica un libro, Homicide: A Year on the Killing Streets, racconto di un anno trascorso assieme ai detective della polizia di Baltimora. La NBC ne acquisisce i diritti e realizza una serie TV quasi omonima (Homicide: Life on the Street) che va avanti per 7 stagioni. Poi, nel 1997, Simon realizza assieme a Ed Burns, ex detective della omicidi e della narcotici, The Corner, libro inchiesta sul traffico di droga a Baltimora ovest. Il volume ottiene un buon successo ed HBO decide di adattarlo in una miniserie TV. Per Simon è arrivato il momento di entrare dalla porta principale nel mondo della televisione e così, pochi anni dopo, nasce The Wire, il suo progetto più ambizioso e, a tutt’oggi, di maggior successo, realizzato anche stavolta dell’indispensabile consulenza di Ed Burns

L’apprezzamento della critica è unanime e Variety sentenzia: “Quando la storia della televisione verrà scritta, in pochi potranno rivaleggiare con The Wire. Una serie talmente ambiziosa che, forse inevitabilmente, sarà assaporata solo da pochi estimatori.” Ed è esattamente ciò che accade. La serie di David Simon, infatti, arriva in un periodo in cui non c’è ancora il passaparola da social network e, vista la sua scarsa componente commerciale/di massa, non ottiene l’immediata risonanza mediatica che merita. I motivi sono molteplici: gran parte dei personaggi utilizzano uno slang di strada e, soprattutto, la continuity dello show è serrata mentre il pubblico è ancora abituato ai procedurali. Insomma The Wire non è adatta ad occasionali momenti di zapping. 
HBO non è poi così felice perché, dopo l’impressionante successo de I Soprano, inizia ad avere grosse aspettative di audience per i suoi drama e così, alla fine delle terza stagione, The Wire è addirittura a rischio di cancellazione. Fortunatamente il network viene indotto a più miti consigli, soprattutto per il continuo supporto di una critica entusiasta, e The Wire viene rinnovato per la quarta stagione – incentrata prevalentemente sulle vicende di un quartetto di liceali e, forse, la migliore dello show – per poi giungere alla sua naturale conclusione al termine della stagione cinque.

Insomma, The Wire debutta in un periodo in cui la TV non è ancora pronta per prodotti di questo tipo, diventando il miglior show televisivo di cui non avete mai (o quasi mai) sentito parlare. Ma state pur certi che dopo averlo visto non potrete più fare a meno di parlarne. Una situazione ottimamente fotografata da Peter Griffin nell’episodio 11×09 de I Griffin.

La prima stagione di The Wire introduce i due principali antagonisti della serie: il dipartimento di polizia di Baltimora ed un gruppo di spacciatori che fanno capo alla famiglia Barksdale. A spiccare sin dalle prime battute è la dicotomia tra Jimmy McNulty, poliziotto autodistruttivo e perennemente insoddisfatto che trova la sua realizzazione solo nel lavoro, e Stringer Bell, l’astuto vice della famiglia Barksdale.


Curiosamente, nonostante si punti ad un tale livello di realismo da aver scritturato alcuni ex criminali nel cast – su tutti l’esempio di Felicia Pearson, un passato da spacciatrice di droga sin dall’età di 12 anni, che nella serie è il volto di Snoop, una spietata killer armata di sparachiodi – McNulty e Stringer sono interpretati da due attori britannici: Dominic West, che qualche anno dopo The Wire tornerà protagonista di buon successo in TV con The Affair, e Idris Elba, la cui fortunatissima carriera televisiva (Luther) e cinematografica (Pacific Rim, i film di Thor per la Marvel, Star Trek Beyond, La Torre Nera) decollerà proprio grazie a The Wire. 


– sono diventato più famoso di te –

Ma, come avrete già capito da quanto scritto più su, la serie di David Simon non è il solito poliziesco ed il dualismo tra McNulty e Stringer serve solo ad introdurci nei vicoli di Baltimora. Più avanti, infatti, grazie al suo perfetto impianto narrativo, The Wire riuscirà anche a fare a meno di loro. La linea guida di Simon è “l’unico modo in cui gli scrittori possono dare importanza alle storie, è non rendere i personaggi più importanti delle storie.”

E così, partendo dall’indagine su un gruppo di spacciatori di strada, The Wire affresca un ecosistema criminale ad amplissimo respiro e dalle mille sfaccettature che ha ripercussioni a più livelli: la microcriminalità (stagione 1), la classe operaia (stagione 2), la politica e le istituzioni (stagione 3), la scuola pubblica (stagione 4) e i mass media (stagione 5). Tracciando una sottile linea che connette il gruppetto di spacciatori dell’angolo di strada con l’ufficio del sindaco, la serie di David Simon descrive uno spaccato drammaticamente realistico e pessimista di una delle tante facce dell’America. Insomma, per quanto si tratti di una fiction, The Wire ha l’ambizione di essere una sorta di docudrama in cui si incrociano parecchie storyline prese in prestito da fatti di cronaca realmente accaduti. Un’operazione molto complessa che va a buon fine grazie ad una solidità di scrittura granitica unita a momenti puramente televisivi: personaggi come l’homeless Bubbles o il bandito di strada omosessuale Omar interpretato da Michael K.Williams creano affezione nel pubblico; ed alcune scene diventano iconici momenti di TV. É il caso della celeberrima “fuck scene” in cui McNulty ed il suo compagno di pattuglia Bunk si ritrovano ad indagare sulla scena dell’omicidio di una giovane donna e per 4 minuti comunicano utilizzando ripetutamente solo 3 vocaboli ‘fuck’, ‘fucker’ e ‘motherfucker’. Guardare per credere:

https://youtu.be/1lElf7D-An8

In termini di impianto narrativo, la più grande innovazione di The Wire è quella di violare la convenzione episodica dei serial crime portando avanti uno sviluppo esclusivamente orizzontale, in cui non ci sono mai casi di contorno che si risolvono nel giro di un episodio. Perché se è vero che, grazie a serie come Twin Peaks prima, e I Soprano poi, in TV si è cominciato a puntare su story arc a lunga gittata, è anche vero che i polizieschi nel 2002 continuano ad essere procedurali (vedi C.S.I. o Law and Order) e lo stesso The Shield, che presenta comunque una trama prevalentemente orizzontale, mantiene una corposa componente episodica – decisamente fine a se stessa – con dei casi mordi e fuggi utili a rimpolpare quei 45 minuti di puntata.
A questo proposito David Simon definisce la sua creatura “un anti-polizesco, una ribellione contro tutti i procedurali di merda che affliggono la TV americana”. Via i casi di omicidio a effetto, via il protagonista a cui il pubblico si affeziona e via anche la colonna sonora con presenza esclusiva di musiche diegetiche, cioè quelle musiche che possono essere udite anche dai personaggi in scena attraverso, ad esempio, uno stereo o un’autoradio.

L’unico lusso musicale che The Wire si concede è durante i titoli di testa, con il brano Way Down in The Hole di Tom Waits, che compare nelle diverse opening sequence delle cinque stagioni interpretata da cinque diversi artisti. Un ulteriore modo per sottolineare lo spirito della serie: il brano – ovvero il racconto – è sempre lo stesso, ma il modo in cui è suonato – cioè il punto di vista di ciascuna stagione – è differente.

Quanto detto fornisce un quadro del perché The Wire sia un prodotto così tanto innovativo per la televisione nel 2002. A chiarirci del tutto le idee, se ci fossero ancora dubbi, è proprio David Simon che, in un’intervista rilasciata al romanziere Nick Hornby (autore di Alta Fedeltà e Febbre a 90°) e pubblicata su believermag.com, spiega quali sono le peculiarità del concept di The Wire“Una delle ragioni per le quali lo show può apparire differente rispetto al resto della produzione TV è che Il nostro modello non è shakespeariano, vedi altre produzioni HBO come i Soprano o Deadwood, due show che ammiro e che rappresentano, per certi versi, una rappresentazione del Macbeth, del Riccardo III o dell’Amleto soprattuto per quanto riguarda le caratteristiche e le macchinazioni dei due protagonisti (Tony Soprano ed Al Swearengen). Noi invece attingiamo da una fonte di ispirazione meno battuta: i classici greci. Ci avviciniamo a tematiche trattate da Eschilo, Sofocle ed Euripide raccontando protagonisti condannati nel cui destino c’è quello di affrontare un gioco truccato e fare i conti con la propria mortalità. (…) The Wire è una tragedia greca in cui le istituzioni sono gli dei dell’Olimpo: il dipartimento di polizia, l’economia basata sulla droga, la politica, l’amministrazione scolastica o gli interessi macroeconomici lanciano le loro saette direttamente nel culo della gente senza nessun valido motivo. In TV ed in gran parte della produzione teatrale, talvolta vengono rappresentati individui che si ergono contro le istituzioni per ottenere catarsi. Nel nostro show le istituzioni si dimostrano sempre troppo grandi, e quei personaggi talmente insolenti da sfidare il costrutto post-moderno dell’impero americano vengono inevitabilmente ingannati, emarginati o schiacciati. Gran parte della TV è imperniata sul trionfo del personaggio che ottiene catarsi e redenzione. Un drama in cui le istituzioni prevalgono su individualità, moralità e giustizia, invece, è diverso.” 

E allora, se non appartenete alla cerchia di illuminati che hanno già visto The Wire, cosa state aspettando? Correte a recuperarlo. Io vi aspetto sulla mia pagina Facebook per parlare di TV, cinema ed altre amenità.

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