TWR la (psico)analisi di Bojack Horseman: il cavallo che sussurrava agli uomini

Ho iniziato a vedere Bojack Horseman quando Netflix era appena approdato in Italia e facevo zapping compulsivo tra i loro originals, incuriosito da questo bizzarro cartone con protagonista un cavallo antropomorfo ex star di una family sitcom anni ’90. All’inizio lo seguivo con moderato divertimento e, non lo nascondo, un bel po’ di scetticismo. Oggi, dopo aver finito di vedere la terza stagione, sono convinto che Bojack Horseman sia già un cult assoluto dei cartoni per adulti.

Sotto una carrozzeria fatta di umorismo – a volte nero ed a volte demenziale, ma sempre efficace – c’è una serie che, a livello di scrittura, ha davvero pochi rivali nel mercato televisivo di oggi. Bojack è un personaggio semplicemente meraviglioso, una star in declino vanesia ed autodistruttiva con cui si crea un’empatia crescente di puntata in puntata. E la più interessante peculiarità della serie è proprio questa: è come una sitcom a cartoni animati costruita sullo scheletro portante di un TV drama. Bojack, nonostante una vita agiata, è decadente ed irrimediabilmente insoddisfatto come Don Draper, indimenticabile mattatore di Mad Men, solo che lui è un cavallo e vive in un mondo popolato da animali antropomorfi che sembrano una versione nevrotica 2.0 del mondo di Richard Scarry. E il cortocircuito relazionale creato da una società in cui coesistono uomini ed animali umanizzati ma in cui non esistono animali domestici, apre la porta a situazioni demenziali e nonsense il cui picco viene raggiunto nell’episodio 2×05 “Galline” in cui dei polli allevano dei loro simili per farne dei nugget da fast food. Perché “nessuno conosce i polli meglio dei polli”. E non mancano, inoltre, la critica sociale e la satira sui fatti di cronaca, vedi ad esempio le evidenti analogie tra le accuse di molestie all’amatissimo personaggio TV Hank Hippopopalous e la vicenda giudiziaria di Bill Cosby.

Bojack Horseman è ambientata ad Hollywood (che diventerà Hollywoo dopo l’episodio in cui viene rubata la “D”), ed il setting della serie ha consentito al suo creatore, Raphael Bob-Waksberg, di sbizzarrirsi facendo spesso e volentieri umorismo sullo stardom cine-televisivo, mostrando il dietro le quinte e gli schizofrenici rapporti tra attori, agenti, registi e produttori. Un’operazione questa portata avanti qualche anno fa dalla memorabile serie HBO Entourage, ispirata allla vita privata di un giovane Mark Wahlberg (cioè prima che il bicipite di Wahlberg diventasse grosso come un Gran Biscotto Rovagnati), una serie che, tra l’altro, viene espressamente parodiata nell’episodio 3×05 di BH.

Ed è anche grazie al microcosmo di personaggi che circonda Bojack che il risultato finale è dir poco straordinario: a partire da Todd, lo sfaticato che vive a casa di Bojack, e Princess Caroline, la gatta rosa che gli fa da agente, passando per Diane, aspirante scrittrice radical chic, per chiudere con quel superlativo imbecille di Mister Peanutbutter (mi domando perché nell’adattamento italiano non sia diventato Mister Burro d’Arachidi, sarebbe stato molto più divertente)
A questo proposito va sottolineato che, nel doppiaggio orginale, a prestare le voci ai personaggi della serie c’è un cast di tutto rispetto:

Bojack è doppiato da Will Arnett che è stato Gob Bluth in quel gioiello di sitcom di Arrested Development ed è anche la voce dell’amatissimo LEGO Batman. Todd è Aaron Paul che, se avete visto Breaking Bad (lo avete visto, vero?) non ha certo bisogno di presentazioni. Diane ha la voce Alison Brie, deliziosa interprete di Mad Men e Community e, dulcis in fundo, Lisa Kudrow, la Phoebe di Friends, è il gufo-manager Wanda.
Ma non finisce qui, perché le star che sono comparse nello show, come Naomi Watts e Daniel Radcliffe (aka Harry Potter) sono doppiate dalle loro controparti reali; quelli che non si sono prestati al doppiaggio del se stesso del bojack-verso, come Andrew Garfield, non hanno fatto una bella fine:  

– Classico caso di frattura del ciuffo. –

Una cura del dettaglio che traspare anche nell’ipnotica sigla d’apertura e nella musica che accompagna i credits finali che è scritta da un membro dei Black Keys (? Back in the 90’s I was in a very famous TV shoooow ?).

Bojack Horseman è al tempo stesso incredibilmente divertente e profondamente malinconico, è il racconto cinico e diretto della vita di una star anaffettiva ma è anche una commedia con uno humour irresistibile. E si può permettere il lusso di ibridare due generi perché, alla base, c’è una qualità di scrittura ampiamente sopra la media che più si va avanti, più diventa convincente, fino ad arrivare ad episodi memorabili come lo strabiliante 3×04 “Un Pesce Fuor d’Acqua” (una puntata ambientata sott’acqua, interamente senza dialoghi, che è un omaggio ai classici dell’animazione di una volta) o a momenti addirittura poetici come il finale della stagione 3.
É un prodotto unico nel suo genere, curato nei minimi particolari che riesce a passare da un golden retriever antropomorfo che insegue il postino alla guida di un auto sportiva, al racconto della depressione di un individuo solo e senza ambizioni. Bojack Horseman è già un cult del piccolo schermo e, con queste solide premesse, ha tutte le carte in regola per entrare nella storia della TV.

Io vi saluto e, se anche voi avete un debole per le orche assassine che fanno la lap-dance, vi ricordo di fare un salto sulla mia pagina Facebook:

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1 commento su “TWR la (psico)analisi di Bojack Horseman: il cavallo che sussurrava agli uomini

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